UN GIOCO DA RAGAZZI

«Fantasma, fantasma, ci sei o non ci sei?»
«Sì, sono qua…»
Le voci di Giacomo e Domenico, sommesse e contraffatte, provenivano dalla loro cameretta, sgusciando attraverso la porta socchiusa per raggiungere le orecchie della madre.
Distesa sul divanetto del salotto, una sgualcita rivista di cucina piegata fra le mani, Marcella sorrise valutando l’impegno e la profonda serietà con cui i figli stavano giocando. Certo, all’inizio aveva avuto qualche riluttanza ad accettare che due bambini potessero divertirsi simulando sgangherate sedute spiritiche, parendole poco opportuno che alla loro età si passassero il tempo in modo così funereo. Colpa di un vecchio film del terrore visto in tivù alcune sere prima, film che li aveva colpiti al punto da catalizzare il loro interesse su medium, tavolini rotondi, apparizioni e piacevolezze simili.
«È vero che i fantasmi possono apparire e scomparire quando vogliono?» le aveva domandato il giorno prima Giacomo, dieci anni. E anche Domenico, di tre anni più giovane, era riuscito a metterla in imbarazzo: «Mamma, come si fa a chiamare un fantasma?»
Ma una volta superato il disagio iniziale, Marcella si era resa conto che la cosa rientrava nel quadro delle monomanie tipiche dell’infanzia, tanto intense quanto inevitabilmente passeggere. Per cui aveva deciso di lasciarli fare, finchè qualcos’altro (magari un altro film) li avesse distratti.
Intanto Giacomo continuava a declamare con voce profonda:
«Dimmi il tuo nome, o spirito dell’aldilà!…»
«Domenico…» rispose una vocina compunta.
«E da dove vieni?»
«Abito in questa casa…»
Sembrava proprio che avessero studiato un copione. Un po’ lugubre, senza dubbio, ma assolutamente in linea con il film che aveva scatenato in loro quelle fantasie.
La luce del pomeriggio adesso non consentiva più di leggere senza avvicinare gli occhi alla pagina in maniera ridicola; quindi la rivista venne lasciata cadere sul pavimento, in un fruscio di pagine stropicciate, e Marcella si sollevò dal divanetto cercando e catturando con i piedi le pantofole abbandonate accanto al tavolino. Decise che era arrivato il momento di dare un’occhiatina a quello strano gioco.
Avvicinandosi silenziosa alla porta della cameretta, la donna faticò a scacciare la maligna idea di far prendere ai due bambini un bello spavento. Avrebbe potuto irrompere con un sonoro «Buuu!», magari coprendosi con un telo bianco. Forse, poi, avrebbero smesso di scherzare con certe cose; ma probabilmente non sarebbe stata un’iniziativa degna di una madre…
Dalla porta semichiusa si diluiva nel corridoio un fascio di soffuso giallore, la luce dell’abat-jour.
Marcella si portò accanto allo stipite, e trattenendo il respiro prese a spiare.
Giacomo se ne stava seduto sul linoleum, a gambe incrociate, la schiena eretta e le mani posate sopra le ginocchia. La luce della lampada collocata sul pavimento proiettava ombre tremule contro i suoi lineamenti tesi. Domenico invece stava in piedi, rivolgendo le spalle alla porta. E Marcella si gustò lo spettacolino di botta e risposta che i due bambini stavano inscenando con una serietà da navigati attori di teatro.
Giacomo: «Sei contento di essere un fantasma?»
Domenico: «Non lo so…»
«Intendi rimanere per sempre in questa casa?»
«Sì. Rimarrò per sempre in questa casa…»
All’improvviso, forse per via di un risolino sfuggitole dalle labbra, Giacomo guardò in direzione della porta, e subito il suo volto fu illuminato da un gran sorriso.
«Mamma! Hai visto? Sono riuscito finalmente a chiamare un fantasma vero!»
Marcella sorrise a sua volta, annuendo. «Certo, ho visto. Complimenti. Domenico, sei proprio un bel fantasmino, sai? Però credo che adesso dovreste…»
Domenico cominciò a voltarsi verso di lei. Lentamente, molto lentamente…
E Marcella sentì il cuore infrangersi come uno specchio colpito da un pugno. C’era qualcosa di sbagliato, nel viso del bambino. E pure nel suo corpo. Le parve, ora, che tra sè ed il figlio vi fosse un vetro smerigliato, un filtro che ne rendesse diafani e instabili i colori e i lineamenti.
Spinse la porta, azzardando un passo esitante all’interno della stanza. Finchè anche i due lettini dei figli entrarono nel suo campo visivo.
Domenico – il corpo di Domenico – era là, immobile, scomposto, le piccole dita avvinghiate alle lenzuola. La testa non si vedeva. Stava nascosta sotto il cuscino sgualcito.
«Hai visto come ho fatto, mamma?» le stava domandando Giacomo, dietro l’immagine evanescente del fratellino. «Hai visto? Non sono stato bravo?»
La madre non lo sentì, e neppure udì il proprio urlo spegnerle in pochi istanti ogni luce nel cervello.

 

Prima publicazione: Mystero, marzo 2001