SORTILEGIO DI NEVE

La voce del vento, attraverso i paraorecchi che penzolavano dai lati del berretto, ricordava il ronzio di un calabrone intrappolato in un bicchiere capovolto. Non faceva freddo, come d’altronde ci si può aspettare da un bel sabato pomeriggio di fine febbraio, ed Emanuele si sentiva carico come non mai.

I suoi scarponcini avevano lasciato piccoli crateri ovali nella neve praticamente tutt’intorno alla casa, e la distesa candida e scintillante sotto cui si nascondeva il grande giardino appariva tarlata come una vecchia coperta di lana. La giacca a vento blu con i bottoni gialli lo riparava discretamente dall’assedio dell’aria, nella quale era già avvertibile l’alito benigno del marzo in arrivo, mentre il calore e l’entusiasmo sprigionati dal suo corpo si materializzavano in diafani spiritelli che dalla bocca si tuffavano a perdersi nell’aria o si appigliavano in goccioline brillanti fra i peluzzi della sciarpa.

Il pupazzo di neve era quasi terminato. Sotto i guanti, le mani un po’ intirizzite imprimevano gli ultimi ritocchi a quel cilindro sormontato da una sfera, bitorzoluta ma dignitosa, pressando da una parte o grattando via protuberanze là dove pareva non essercene bisogno. Era alto quanto Emanuele, forse qualche centimetro in più. Gli occhi erano due pietruzze rosse, il naso un pezzetto di legno, la bocca una fila di bottoni allineati l’uno accanto all’altro, incastonati a colpetti di pollice nel volto bianco. I bottoni seguivano una linea retta. Era una bocca che non sorrideva.

Emanuele si fermò e rimase a un passo dalla propria creatura, rimirandola con espressione indecifrabile. Sembrava soddisfatto, ma al tempo stesso inorridito. «Non ti chiamerò mai papà…», bisbigliò fra i denti, fissando gli occhi rossi del pupazzo. Questi sostenne lo sguardo con aria dolente.

Il bambino guardò nervoso verso casa. Di lì a non molto lo avrebbero richiamato dentro, perciò doveva sbrigarsi. Il cuore, adesso, si stava facendo sentire, pur sepolto sotto strati di indumenti.

La luce del sole era mutata. Dal giallo accecante che aveva accolto Emanuele per benedire la sua piccola opera, il pomeriggio era scivolato piano piano a un arancione venato di viola. La neve era una distesa di sabbia brillante. Il momento era arrivato.

Si sfilò i guanti e li fece scomparire in tasca. La pelle delle mani si era fatta rovente. Con le esili dita ad artiglio cominciò a scavare al centro del petto del pupazzo. Le sue falangi, implacabili come zanne di un roditore attaccate al legno, dopo pochi istanti si ritrassero, lucide, ed Emanuele studiò la piccola nicchia nella quale – se l’ometto gelato ne avesse avuto uno – avrebbe trovato il cuore.

Affondò poi una mano sotto la sciarpa, abbassando un po’ la cerniera lampo della giacca a vento per raggiungere un taschino interno, nascosto agli occhi del mondo. Ne estrasse un cartoccino sgualcito.

Ebbe qualche difficoltà ad aprirlo, dal momento che le dita eseguivano con pigrizia i comandi impartiti dal cervello. E poi, aveva paura che un improvviso guizzo del vento gliene rubasse il contenuto. Era troppo prezioso. Quando finalmente arrivò a stringere fra le dita il batuffolino di cotone idrofilo imbrattato di macchie scure sentì il cuore vibrare per l’emozione. Sembrava impossibile, ma dopo aver tanto fantasticato era sul punto di farlo davvero…

Ciò che provava per zio Vinicio non era odio, ma un sentimento che comunque ci andava molto vicino. Si sarebbe potuto parlare di desiderio di annullamento allo stato puro, assolutamente svincolato da qualunque forma di raziocinio, incontaminato e irriducibile.

Lo zio voleva essere chiamato papà, adesso. Ma papà non c’era più, e non ce ne sarebbe mai stato un altro. Anche se mamma – dopo poco più di un anno dall’incidente che l’aveva resa vedova – se l’era sposato, non era affatto un valido motivo per considerarlo un papà. Inoltre, non c’era confronto. Suo padre lo portava a pescare ogni domenica, gli permetteva di leggere i fumetti a letto e di spegnere l’abat-jour quando voleva, giocava con lui anche quando era evidente che non ne aveva alcuna voglia. Era un papà vero.

Zio Vinicio non era nulla di tutto ciò. E nonostante si sforzasse di apparire ‘paterno’, essenzialmente per compiacere mamma, trasudava falsità da tutti i pori. Emanuele sapeva benissimo di essergli antipatico, ma non vi era dubbio che quell’antipatia era ricambiata al quadrato.

«Tu non sarai mai mio padre!» ringhiò, rivolto al pupazzo di neve. E infilò il batuffolo di cotone sporco di sangue nella cavità toracica appena scavata.

Quello del sangue era sembrato un ostacolo insormontabile. Il libro che aveva trovato in biblioteca, Incantesimi & Sortilegi, parlava espressamente di “sangue della vittima”; ed Emanuele aveva trascorso parecchie ore, diurne e notturne, a riflettere su come potersi procurare quel fondamentale ingrediente e procedere così nel suo piano grandioso.

La soluzione gli era stata offerta giusto il mattino precedente, su di un vassoio d’argento. Aveva sentito lo zio imprecare in bagno. Nulla di speciale, all’apparenza: si era semplicemente tagliato radendosi la barba. Benedetta quella lametta! E quando più tardi Emanuele, con il cuore in tumulto, si era intrufolato a scoperchiare il cestino come un accattone in erba, per poco non gi era sfuggito un grido di esultanza. Ecco il sangue!

«Emi! È ora di rientrare!»

Dalla soglia di casa, in distanza, la sagoma scura dello zio contornata dalla luce gialla dell’ingresso era uno scarno sosia in negativo dell’uomo di neve. Quanto detestava essere chiamato Emi!…

«Arrivo, arrivo…» sussurrò in risposta, raccogliendo manciate di neve e richiudendo la nicchia nel petto del pupazzo. Ecco. Era fatta.

Fissò per qualche istante gli occhietti del proprio manufatto, che alla luce bronzea del pomeriggio morente davano l’impressione di ardere di una dolorosa consapevolezza. Ponendo infine il palmo della mano sinistra contro il petto nevoso – come dettavano le istruzioni – Emanuele recitò sottovoce la formula:

«Cuore di neve, anima di sangue. Il tuo spirito io lego, zio Vinicio, e così la tua carne.»

Un bagliore fugace, inafferrabile, accese la distesa di neve che racchiudeva il mondo. Fu appena un fremito, un sussulto; poi Emanuele volse le spalle al tramonto, e preceduto dalla propria ombra si avviò gongolante verso casa.

Quella sera, prima di chiudere la finestra della propria camera, si soffermò ad ammirare l’ometto, pallido e compunto, in attesa laggiù, in fondo al campo innevato. Sotto la luce della luna, l’impavida sentinella era persa a scrutare nella notte gli invisibili orizzonti che si stendono nel buio. «Mi raccomando…» gli disse Emanuele, lasciando un opaco alone di vapore contro il vetro. Poi abbassò le tapparelle e si infilò sotto le coperte. Spense subito la luce, sfinito, e sprofondò in un sonno tranquillo e senza sogni, il primo da settimane.

 

Al mattino, furono le urla di sua madre a svegliarlo. Provenivano dalla camera in cui lei e lo zio condividevano il letto che era stato di papà. E che urla! Emanuele spalancò gli occhi, e le sue labbra si stirarono in un sorriso radioso. Balzò giù dal lettino, e mentre mamma continuava a urlare come un’ossessa corse a piedi nudi alla finestra e sollevò con gran fracasso le tapparelle.

Era una splendida domenica, una tarda, luminosa, calda mattinata di gioia. Il sole, portentoso, aveva tramutato il mondo in una distesa lucida e gocciolante.

Il pupazzo di neve stava perdendo le sue forme. La testa non era più che un enorme gheriglio bianco reclinato sull’unica spalla rimasta, con un solo occhio a dardeggiare malinconico in direzione della casa. Emanuele ne fu quasi commosso.

La mamma gridava, e gridava. Le sarebbe saltata l’ugola, se avesse continuato ancora un po’.

Provò un brivido di sincero orrore, cercando di immaginare in quali condizioni si trovasse zio Vinicio. Sapeva che non gli sarebbe stato permesso vederlo. Chissà come avrebbero fatto a portarlo via, o a lavare il materasso!…

Sorrise al pupazzo in lenta ma inarrestabile liquefazione, e quello – la faccia deforme e la fila di bottoni ora ricurva verso l’alto – ricambiò con un ghigno d’intesa.

 

[Prima pubblicazione: I Misteri, feb.1999]