«Anime sparpagliate sui palchi della vita»
Andrea Mingardi ha presentato all’Ariostea di Ferrara il suo nuovo libro, Professione Cantante (Pendragon)
Le balere, le storie delle orchestre, i viaggi con gli strumenti sui pulmini.
Tra una nota di poesia, un “p…a boia” e una battuta esilarante, quasi fossimo al bar tra vecchi amici, Andrea Mingardi sa riportarci là, alla magia trasandata di un mondo che è incanto e disincanto insieme. E tutti pendiamo dalle sue labbra, ridiamo spudoratamente, ci abbandoniamo alla favola balorda e appassionante che solo un cantastorie sa regalare.
Biblioteca Ariostea sold out, lo scorso 4 luglio, per l’incontro evento con un protagonista della musica italiana, una delle personalità più autentiche della storia della nostra canzone.
In Professione cantante, edizioni Pendragon, Andrea Mingardi racconta la bellezza e la caducità di un mestiere che può darti l’eternità o farti morire, ripetutamente. Benedizione e dannazione di uno stato precario che accompagna i giorni di chi sceglie di cantare per vivere.
«Uno dice ‘Io canto’ e si sente immediatamente ribattere: che bello! Ma subito dopo: e che lavoro fai?»
Il libro raccoglie contributi di Mina, Guccini, Renzo Arbore, Pippo Baudo, Ivana Spagna, Peppino di Capri e molti altri artisti: «Mi hanno risposto subito: tutti ci tenevano a raccontare i retroscena del mestiere del cantante», spiega Mingardi. Risvolti, «trappole» di una professione ambita, invidiata. Una collezione di aneddoti curiosi (e spassosi) che fanno rivivere atmosfere dimenticate, ma che riattraversano anche baratri di solitudine: cantare è «mestiere crudele», «la musica sa farsi amare ma può anche farti del male».
«Il libro è una boccata di verità», aggiunge l’artista, che sa unire pagine autobiografiche a scene di storia grottescamente italiana: «In fondo i protagonisti siamo tutti noi, anime in competizione, sparpagliate sui palchi della vita, abitanti di una nazione nota per il bel canto e per essere una eterna fabbrica delle illusioni».
Questo libro si gusta dalla prima all’ultima pagina. Perché chi scrive non ha peli sulla lingua e probabilmente non li ha mai avuti. La sincerità si traduce in un’amichevole conversazione, un’altalena che dondola tra ironia e profondità, barzellette quotidiane – come un autografo sul santino («Alla Madonna con simpatia») – e riflessioni sull’esistere. «Quando sono partito per questa avventura – scrive Mingardi – ho sentito come una scossa, una rivelazione, un messaggio celeste».
«Cosa rimarrà di quelle note, dei viaggi, degli amori rubati, dei modesti hotel per una sola notte e delle migliaia di canzoni ispirate, sgualcite o solo abbozzate? La presunzione di lasciare ai posteri qualcosa annida nella quasi totalità degli esseri umani (…). Viene definito: lascito terreno. Può essere un semplice ricordo, un momento speciale, uno stato d’animo, un aneddoto o una frase detta al momento giusto. Per noi musicisti e cantanti è un’opera. Grande o piccola che sia, un mix di note e parole che tra trent’anni possa tornare in mente a un paio di persone (…). In quel momento, ovunque tu ti trovi, guadagni un respiro, un battito, un anelito di vita, un frammento d’eternità».
E leggendo questo paragrafo il mio pensiero va a Datemi della musica, che non è solo canzone, ma parola poetica potente:
…
E la sera se non basterà bere
per non vedere più facce di avvoltoi
e la notte quando tutte le paure mi prenderanno come una ventata gelida
e al mattino dopo che il mondo avrà sbadigliato le sue brutture
datemi della musica.
E quando mi caleranno quattro amici con gli occhi rossi
e un pugno di terra cadrà sul mio vestito di legno
quando perso nell’universo
come un atomo impazzito rientrerò nel circuito misterioso della vita
datemi della musica
datemi della musica
«Mina ha definito Datemi della musica un ‘monumento’», racconta Mingardi; e quando parla della ‘Tigre’ gli si illuminano gli occhi: «Lei canta meglio di tutte le altre. È una cantante strepitosa. Sarebbe stata la voce più bella del mondo se non avesse avuto paura dell’aereo, del treno, della nave».
Mina, amica di sempre. La sua telefonata nel 2006, per il cantante bolognese è un dono dopo l’ennesima «morte apparente»: «Dio esiste. E anche Mina. E, secondo me, si parlano».
Ripercorrendo inferno, paradiso e limbo della sua professione, Mingardi canta quell’amore che sopra a tutto e nonostante tutto resta: «Amo i musicisti, i batteristi, i pianisti, i chitarristi, i sassofonisti, i trombettisti, i bassisti…insomma amo chi, grazie alla passione, allo studio e a quella rara sensibilità degli incompresi, non ha solo l’intento di scalare i gradini della notorietà ma cerca un’armonia verso dentro e fuori di sé (…).
La musica libera e liberata può farti andare dove non sei mai stato, amare chi non hai mai conosciuto e perfino attenuare il terrore che non esista un’altra vita».
Tra storie e lezioni di vita vissuta (che non hanno mai l’aria di essere tali), nelle pagine di questo libro passeggia un Andrea Mingardi che sa raccontarsi senza maschere, con grande autoironia.
Con l’onestà e la grinta di chi sa che «non si viene a patti col rock’n’roll».