Le stelle malate

Lavoro in questo museo da qualche mese, doveva essere un lavoretto temporaneo per pagarmi il viaggio di Capodanno ma poi, quando ho rotto con la mia ragazza, il viaggio è saltato ed io ho deciso di tenere il lavoro. È un part-time comodo, pagato esiguamente ma che richiede poco sforzo (si tratta soltanto di stare in piedi e gettare un occhio ai visitatori, che non oltrepassino le corde o gettino cartacce). Questa notte i musei stanno aperti fino a tardi per un’iniziativa culturale promossa dal comune, e quando mi hanno proposto di fare un turno straordinario ho accettato subito. Qualche soldo in più mi fa comodo, e poi non avevo nessuna voglia di andare a sbattermi in discoteca come ogni venerdì.
Mi hanno assegnato una sala che normalmente non adoro sorvegliare: il soffitto altissimo, a cupola, è affrescato per assomigliare a un cielo stellato, ma il colore scelto è a mio avviso troppo tendente al nero e mi mette malinconia stare qui dentro a lungo. C’è anche una luna, che il pittore ha avuto il buonsenso di non piazzare proprio in mezzo alla cupola ma vicino alla giuntura con le colonne. Questa sera però mi pare particolarmente coerente trovarmi qui: notte fuori e notte dentro. Forse è per questo che mi sento meno nervoso.
Fino all’ora di cena sono venuti specialmente anziani o persone di mezza età, ma poi si sono diradati con l’avvicinarsi dell’ora del pasto. Sono stati via via sostituiti da giovani, ragazzi della mia età ma per lo più tardo adolescenti, cosa che mi ha stupito perché in genere non se ne vedono al di fuori delle scolaresche o dei tour promossi dalle facoltà di beni culturali o architettura. Immagino che si tratti di studenti universitari fuorisede, appena arrivati in città per l’inizio dell’anno accademico e ansiosi di conoscere quella che sarà la loro casa per i prossimi cinque o sei anni, perché la varietà di accenti che sento copre tutto lo Stivale. Ridacchiano, si tirano per le maniche, mi sembrano spensierati e leggeri come probabilmente ero io alla loro età, anche se non me lo ricordo. Riesco a richiamare solo una vaga sensazione di ignoto, ma nulla di più da quel periodo della mia vita. I ricordi hanno preso la forma di un ammasso lattiginoso di sensazioni mescolate, con i contorni fusi tra loro al punto che euforia e spaesamento hanno lo stesso colore.
Attorno alle dieci fa il suo ingresso nella sala una combriccola piuttosto rumorosa: sono sei, quattro ragazzi e due ragazze, tutti con sciarpe a maglie larghe e capispalla frangiati, come va di moda adesso. Devono essere reduci da un lungo aperitivo, perché ridono troppo forte e di tanto in tanto uno, alzando la testa per guardare la volta stellata, perde quasi l’equilibrio e si sbilancia camminando da una parte. Si siedono sulla panca che sta al centro della sala e per pochi attimi stanno in silenzio, i nasi all’insù e le mascelle rilassate. Posso contare gli incisivi di ognuno. A un tratto una delle ragazze punta un dito verso il quarto di cupola diametralmente opposto alla luna e fa presente a tutti che quella è la costellazione dell’Orsa Maggiore. Gli altri la guardano un po’ sgomenti, forse perché non sanno cosa sia la costellazione. Poi uno dei ragazzi risponde: «Le stelle sono malate.» Quando gli altri gli chiedono delucidazioni, lui domanda dove fossero quella mattina a lezione, e a quel punto partono scherni sul suo presunto futuro accademico, sulla laurea con lode e via dicendo.  Detto ciò si alzano e, punzecchiandosi a vicenda, procedono verso la sala successiva. Sento ancora le voci quando una delle due ragazze fa di nuovo capolino nella sala e porgendomi un bicchiere di plastica fa: «Posso darlo a te? Non c’è neanche un cestino.» Io stupidamente lo prendo e, prima che possa controbattere qualcosa di sensato, lei è già tornata dai suoi amici. È questo che mi succede, a stare troppo tempo solo senza parlare, mi si rallenta il pensiero.
Che poi, non è vietato far entrare visitatori con cibo e bevande? Mi chiedo cosa stiano facendo all’ingresso, invece di controllare. Questo bicchiere inoltre conteneva di sicuro alcool, mi dico, guardando la sottile patina di liquido che ricopre appena il fondo.
Sospiro e alzo gli occhi alla volta scura, come se fosse il cielo vero. Le stelle sono malate. Lo conoscevo anch’io quel filosofo, quello che lo diceva, quando ero all’università, ricordo che mi piaceva molto ma ora non riesco a richiamare il nome. Comunque, per me non c’è stato nessun futuro accademico. Penso che forse tra qualche anno quel ragazzo potrebbe trovarsi a lavorare proprio qui, dopo la sua laurea, e magari starà proprio al mio posto nella sala stellata a pensare alle malattie del cielo. Ma probabilmente no, tra qualche anno ci sarò ancora io, qui.
Abbasso di nuovo lo sguardo al bicchiere e noto che c’è caduto qualcosa dentro. Oh, no, è soltanto la luna riflessa nell’alcool. La luna è caduta nel mio bicchiere. Se potessi la porterei a casa con me, la terrei sul mio comodino in quel bicchiere dove per lo meno non dovrebbe trascorrere la sua esistenza circondata da stelle malate. Ma probabilmente le hanno già attaccato il loro morbo, butterata e giallognola com’è. Annegarsi nell’alcool a volte funziona, comunque.
Stringo il bicchiere con dentro la luna fino a mezzanotte, come se volessi proteggerla. Quando viene diffuso dagli altoparlanti il messaggio che il museo sta per chiudere, mi allungo fino al cestino posto all’entrata della sala e, non senza un po’ di riluttanza, getto il bicchiere. Nell’uscire mi sento stranamente rincuorato dal fatto che la luna sia ancora al suo posto, lassù nel cielo troppo nero.