Everest, il Signore delle Nevi
Appare d’un tratto, nitido, vestito di luce come un miracolo.
Non ci speravamo.
Le tensioni del giorno trascorso si annullano in quella visione, commovente.
Il viaggio è stato lungo, estenuante: dopo tre ore circa di strada sterrata, abbiamo lasciato la jeep, abbiamo preso un bus traballante, poi, dopo un’altra ora, abbiamo intravvisto tra le nubi la vetta innevata dell’Everest.
Il bus si è fermato e tutti siamo corsi giù per ammirare il Sovrano dell’Himalaya e catturarlo in qualche scatto.
Al monastero di Ronghpu siamo saliti su un carretto trainato da un mulo per raggiungere il campo base. L’autista: un ragazzino di nove o dieci anni; ogni quarto d’ora il piccolo tibetano ci chiedeva un biscotto, ma, forse per la lenta digestione, si era addormentato, crollando lateralmente. Max ha dovuto tenerlo per il colletto e afferrare le redini per arrivare a destinazione.
A 5200 metri troviamo posto per dormire la notte in una grande tenda (ci costa solo mezzo dollaro!).
Il vento è violentissimo, sembra che la tenda voli via da un momento all’altro, ma in realtà è ancorata saldamente e ripara bene dalle intemperie.
I nostri gentilissimi ospiti tibetani continuano a versare tè al burro rancido di yak nei nostri bicchieri; qui tutti ne vanno ghiotti, ma l’odore non è per nulla invitante.
Dopo una notte gelida, ci svegliamo con le prime luci per ammirare l’Everest, incantevole con l’aureola rosa all’alba.
EVEREST
Dal tuo silenzio
parlami
Signore delle nevi
perché il silenzio
mi rimbomba
dentro
vorrei gridarlo
e assordare
il cielo.
Ma dal tuo trono, impassibile,
mi guardi,
e mi ricopri di eterna
luce.
Bianca
preghiera
che non ha
parole.