Giornata della Memoria – “SHABBAT” di Roberto Giacometti

SHABBAT

(Sabato 12 novembre 1938, sotto la porta)

L’austero e grande portone di Casa Ancona, al civico 66 di una prestigiosa via della città, aveva più di cent’anni come la casa stessa. Da molti più anni e generazioni, invece, la famiglia Ancona, ovunque risiedesse, onorava lo Shabbat secondo le più severe regole della tradizione ebraica.
Quel pesante portone di noce, forse mai nutrito di cera, aveva una porticina di lato per il passaggio delle persone e molte abrasioni nella parte più bassa, lasciate dalle ruote delle biciclette che chi doveva entrare usava come ariete gommoso per spingere l’anta ad aprirsi.
Nel 1938 nessuno della famiglia Ancona possedeva un’automobile. Certamente se la
sarebbero potuta permettere, ma come ripeteva spesso il capofamiglia Giuseppe, professore di chimica organica del locale Ateneo, non ce n’era alcun bisogno.
Sullo stipite del portone una minuscola piastrina di ottone brunito, ormai illeggibile,
riportava ancora la scritta Avvocato Ismaele Ancona. Era il nonno del Professor Dottor Giuseppe.
Sotto la piastrina non c’era un pulsante per suonare il campanello, ma un pomolo d’ottone
che un tempo si doveva tirare per produrre, al di là del portone, il tintinnare di una campanella.
Ora però, e chissà da quanto tempo, la campanella non c’era più e i visitatori che intendevano annunciarsi altro non potevano fare che battere qualche colpo con uno dei batacchi di bronzo che stavano al centro delle ante del portone carraio.
Quel sabato di novembre l’ultimogenita degli Ancona, la diciottenne Elisabetta dai capelli
biondo cenere e dagli occhi persino pungenti da quanto stavano sempre attenti, aspettava una visita del suo Marcello, studente del padre e malcelato pretendente che la corteggiava fin dall’estate. La relazione, assai innocente e consona a quei tempi, era nota alla famiglia Ancona, che con garbato stile fingeva di non saperne nulla, non foss’altro perché il padre di Marcello, il Signor Davide Calderoni, era il loro macellaio di fiducia che così bene li serviva, oltre ad essere anch’egli ebreo e frequentatore della sinagoga. E persino benestante, sussurrava la madre di Elisabetta al marito, il che non guastava.
La visita di Marcello era attesa e importante, perché secondo le intese il giovane avrebbe
dovuto comunicare all’innamorata se fosse riuscito ad ottenere ospitalità presso un produttore di salumi affumicati che riforniva la macelleria del padre, con stabilimento a Lunes, in Val Pusteria, al fine di trascorrere la settimana delle vacanze di Natale a dieci minuti da Brunico, dove la famiglia Ancona possedeva uno chalet e dove era solita trasferirsi durante le festività cristiane, onde evitare di mostrarsi indifferente.
Quel sabato, come tutti i sabati, c’era però un problema: secondo le severe norme imposte
dal capofamiglia, durante lo Shabbat non si potevano ricevere visite, se non da parte del rabbino, del medico o per altre inderogabili ragioni. Nonostante le 39 melachot, cioè le azioni vietate dal Talmud durante lo Shabbat, non comprendessero il ricevere visite di cortesia, così era d’uso presso gli Ancona per semplice affezione alle tradizioni di famiglia.
Certo, si poteva uscire di casa e così avrebbe potuto fare Elisabetta, se non fosse stato che quel giorno aveva la febbre alta per una tonsillite acuta.
L’idea che illuminò la ragazza, a metà mattina di quel giorno nebbioso, fu aspettare
Marcello sotto la porta di casa, per non far risuonare il batacchio e destare l’attenzione dei famigliari. Non oltre la porta, per non prendere freddo e per non farsi scorgere dalle finestre, e non nell’atrio, per farsi comunque notare da Marcello. Quindi, bene intabarrata nella lana, sotto la porta socchiusa.

* * * * *

Altre parole non ce ne stanno. Il tempo convenuto per la visita è finito già da un po’ e non possiamo abusarne oltre. Sicché non sapremo cosa accadde esattamente quel giorno e nei mesi seguenti. Sappiamo però che era il 1938 ed erano state emanate le leggi razziali. L’edizione pomeridiana del Corriere della Sera del giorno prima, venerdì 11 novembre, stava appoggiata sulla consolle dell’ingresso ed annunciava: Le leggi per la difesa della razza approvate dal Consiglio dei ministri. Sappiamo da documenti d’archivio che Marcello Calderoni morì a Treblinka il 4 agosto 1944. Sappiamo che la famiglia Ancona non tornò da Auschwitz. Vediamo ancora la casa e quel portone al civico 66, ora restaurati, perché ci siamo dentro, nel giardino ornato di siepi di bosso e rosai fioriti.
Guardiamo in alto verso il sole e dobbiamo socchiudere gli occhi. È un tiepido mese di
maggio. L’eco del vissuto in questo luogo diventa un sibilo nelle orecchie. Poi una voce ci richiama: lenta, con l’aiuto di due bastoni e una badante, ma con gli occhi che ancora ti trapassano, la novantanovenne Elisabetta Ancona, unica superstite della sua famiglia, liberata dall’Armata Rossa il 27 gennaio 1945 e tornata in città due anni dopo, ci invita a seguirla dal giardino alla porta di casa.

– Ecco, lì… vedete?
Con la punta di un bastone ci indica le lettere E ed M incise sulla porta. Fu lei stessa a
scolpirle, senza temere di essere rimproverata dal padre.
– Non me ne importava più nulla, – aggiunge – ormai stavamo per abbandonare la casa e
avevo bisogno di lasciare un segno indelebile… perché è proprio lì, sapete, che ci demmo l’ultimo bacio, quella mattina. Oh… quello me lo ricordo bene, sì… fu un bacio lungo, appassionato, che mi fece persino passare il mal di gola! – e sorride.
La salutiamo affettuosamente e ci allontaniamo.
– Venite pure a trovarmi quando volete, – ci dice – anche di sabato!