Le Strenne del Gsf: “Il cielo da quaggiù” di Francesco Suffritti

LE STRENNE del GSF

il Gruppo scrittori ferraresi

vi propone qualche consiglio di lettura

in prossimità del Natale.

La strenna (fonte Wikipedia) 

La strenna, o strenna natalizia, è un regalo che è d’uso fare o ricevere a Natale o nel periodo natalizio.

Tale usanza discende dalla tradizione dell’Antica Roma che prevedeva lo scambio di doni augurali, durante i Saturnalia, ciclo di festività romane che si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, in onore del dio Saturno, e precedevano il giorno del Sol Invictus. Il termine deriva dal latino strēna, vocabolo di probabile origine sabina, con il significato di “regalo di buon augurio”.

Secondo Varrone, l’uso della strenna adottato già dalla prima fondazione dell’Urbe, istituito da Tito Tazio che per primo colse, quale buon auspicio per il nuovo anno, il ramoscello di una pianta (arbor felix) posta nel bosco sacro alla dea Strenia; dalla quale derivò il termine strenae per i doni di vario genere, anche monete, da scambiarsi nelle festività dei Saturnalia.

In campo editoriale, nel XIX secolo, la strenna indicava una raccolta di componimenti in prosa e poesia che veniva posta in vendita a capodanno. Da questa consuetudine deriva la definizione “strenne editoriali” o “libro strenna” per le pubblicazioni poste sul mercato nella prima settimana di dicembre, al principale scopo di fungere da tradizionale regalo per le festività natalizie.

 

Ecco il nostro terzo consiglio per le imminenti festività:

 

Francesco Suffritti, Il cielo da quaggiù. Poesie e racconti

recensione di Giuseppe Ferrara

La vita estrinseca è quella vita che si vive abbandonandosi alla pienezza del mondo.

Leopardi propone questa immagine nel suo Elogio degli uccelli e attribuisce proprio agli uccelli questa capacità di una vita pura.

Gli esseri umani potrebbero vivere nello stesso modo se solo fossero capaci di questo abbandonarsi. Gli uccelli infatti, dice il poeta, «pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; vanno e vengono di continuo senza necessità veruna», solo un «puro moto» per il proprio diletto.

E così «anche nel piccolo tempo che soprasseggono in un luogo, tu non li vedi mai stare fermi della persona; sempre si volgono qua e là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono…», osservano. Sono queste le cose che amano fare nella vita. Anzi, la vita degli uccelli è la vita che non rimpiange nulla, e che non spera nulla. Così, in questo modo, la vita è diletto.

Una pura vita.

Per questa ragione, conclude Leopardi, gli uccelli «veggono e provano nella vita loro cose infinite e diversissime; esercitano continuamente il loro corpo; abbondano soprammodo della vita estrinseca».

Ma perché questa vita è estrinseca, e non è semplicemente una vita?

E Leopardi ce lo spiega: perché gli uccelli che abbondano di vita estrinseca «parimenti sono ricchi» di vita interiore.

Francesco Suffritti è un giovane poeta che non avrebbe da ridire se lo si definisse un vecchio poeta, perché come lui stesso scrive: «Io sono giovane e vecchio».

Francesco non gode (apparentemente) di quel puro moto degli uccelli leopardiani e infatti la sua silloge poetica, della quale parleremo, ha per titolo Il cielo da quaggiù (Pendragon, 2021).

No, lui non può godere (apparentemente) di questo… abbandono perché «…esiste una malattia molto rara, che quasi nessuno conosce che si chiama cardiomiopatia miofibrillare. Una malattia devastante, silenziosa, dovuta a una mutazione genetica, che compare improvvisamente quando Francesco ha solo sei anni» (dalla Prefazione di Alessandro Berselli) e che lo ha costretto da allora – oggi Francesco ha 16 anni – a utilizzare un respiratore per apnee che lo accompagna nei suoi giri sulla sua carrozzella.

Ma proprio come farebbe un uccellino, Francesco, imperterrito si abbandona al canto:

Tutto il tempo a chiacchierare

con le tue amiche stelle

vicine vicine a bisbigliare

come su un albero le mele.

[da Luna (revised), p. 28]

E, come Leopardi, Francesco canta la Luna. Meglio, ce la fa ascoltare perché questo un poeta fa: ascolta, osserva, canta.

Ci dice Francesco nella sua essenziale premessa alle poesie e racconti della raccolta: «Ci sono due cose che amo fare nella vita: scrivere e osservare quello che mi circonda. Perciò ho pensato a come unire queste due passioni ed è nato questo libro». Così, semplicemente: passando da un ramo a un altro!

Continua, poco più avanti, esprimendo, per così dire, la sua ars poetica: «Non rinunciate mai alla vostra felicità, qualsiasi sforzo richieda». Et voilà: il cielo da quaggiù diventa la terra vista da lassù, perché Francesco è uno di questi uccelli dalla vita estrinseca.

Chi potrebbe in un colpo solo afferrare il chiacchiericcio delle stelle e delle mele e mescolare in soli quattro versi tante, tante immagini, odori, suoni, tutti interscambiabili e interconnessi? Perché quel «vicine vicine» rivolto alle costellazioni ci spalanca a un cielo di mele rosse, quell’albero dove gli uccelli «soprastanno pochissimo…senza necessità veruna»?

Con il suo canto Francesco pare svelarci l’inganno che avvolge la poesia lirica. Per molti la poesia lirica è un genere di poesia nella quale l’autore ‘finge’ l’assenza di pubblico, finge di parlare o di scrivere per sé o al massimo per un destinatario, un lettore, immaginario o reale.

No. La poesia di Francesco parla di qualcosa e allo stesso tempo parla di se stessa. La voce di questa poesia, il canto che si leva tra le ‘foglie’ di questo libro, dice questo e quello, dice quaggiù e lassù, terra e cielo, cuore e mente, e tutto viene detto in modo che un effetto d’eco («vicine, vicine…cine… ine; stelle…mele…ele») ci ricorda sempre che non la si può prendere in parola, la Poesia.

Naturalmente questo potrebbe irritare coloro che vorrebbero rapide emozioni, sentimenti immediati, lamenti e lacrime. Ma proprio questa ambiguità tra cielo e terra, tra vita intrinseca ed estrinseca e, ci verrebbe da dire, tra un respiro atteso e l’altro ricevuto, è la sua lezione fondamentale, una lezione insostituibile.

Tubicini (p. 46)

Le sere in ospedale sono fredde

come il ghiacciolo che gela i pensieri

ma il mio ghiacciolo è in un tubicino

che a piccole gocce mi gela le vene.

La pace adesso mi spaventa

e attorno a me una strana quiete

tutto zitto nessuno parla

lontano una bimba urla che ha sete.

Fuori la Primavera è alle porte

ma di essa io non ho altro

che i bulbi sulle lenzuola

confusi con una vecchia macchia di thè.

Tic tac tic tac

Tip tip tip

Driiin Driin

Basta mamma, andiamo a casa.

E i medici dicono che ho avuto fortuna

ma io di fortuna non ne volevo

di questa vita potevo fare a meno

e i miei tubicini ho voluto tagliare.

Mi hanno prescritto anche dei farmaci

ma pazzo ero e tale sarò

non c’è cura per questa malattia

illusi

allontanate chi mi ha indotto alla follia.

Ma ora se son vivo

un motivo ci sarà

mi manca casa e se sopravvivo

voglio rivedere mamma e papà.

Questo basta.

L’analisi del testo, le tecnicalità, tutto quello che una buona critica poetica comporterebbe, vengono azzerate da questi versi. Perché qui non stiamo facendo una lezione di volo, ma osserviamo volare: qui non stiamo solo guardando un cielo da quaggiù, ma veniamo accolti nella pienezza del mondo.

Il punto è che la vita estrinseca degli uccelli come Francesco – costretto a muoversi con difficoltà, a respirare con fatica, a maneggiare penne e tastiere con le… piume – è inseparabile da quella interiore e viceversa.

Perché la vita estrinseca è quella vita in cui la distinzione tra mente e corpo, quaggiù e lassù, dentro e fuori, collassa definitivamente. Una vita estrinseca è la vita che vive quella peculiare forma di vita umana, che non dimentica di essere animale, è la vita dei fanciulli, gli unici capaci di vedere il mondo come lo vedono gli animali.

Lo sguardo di Francesco – che, ricordiamolo, ama scrivere e osservare – non è rivolto a un cielo visto da quaggiù (titolo a questo punto incantevolmente ironico), non è cioè uno sguardo sul mondo, ma coincide con quello che sta guardando.

È lo sguardo che il mondo possiede per donarsi a noi tutti.

Attraverso un fanciullo. Attraverso Francesco. Attraverso la Poesia.