TIRO ALLA FUNE

Avevo sentito parlare, vagamente, della Festa del Campo Rosso. Sapevo che è una specie di sagra paesana, una celebrazione legata alla fine del raccolto che si tiene annualmente da qualche parte, nelle campagne che si stendono fra Ferrara e Rovigo. Ma la mia conoscenza di come si svolgano davvero le cose era praticamente nulla, fintanto che la redazione di ‘Mystero’ non ha pensato bene di mandarmi a dare un’occhiata. Certe cerimonie agresti, mi aveva detto Luigi Cozzi, il direttore, hanno sempre un addentellato con qualche credenza dimenticata, con qualche rito antico, per cui avrebbe potuto uscirne un articolo gustoso…

Quindi sono andato. Anche se posso dirmi decisamente pentito di averlo fatto.

Non è stato affatto facile trovare Borgo Minore, e ammetto con un pizzico di vergogna di essermi smarrito più di una volta nell’intrico di straducole ghiaiate che si ramificano fra i campi per collegare agglomerati di abitazioni rurali dai nomi strampalati.

In sostanza, sono arrivato sul posto all’imbrunire. Ho parcheggiato l’auto di fianco a una chiesetta cadente, e seguendo luci e grida mi sono subito incamminato in direzione di un esteso assembramento di persone che componevano una variegata, vibrante massa scura a circa mezzo chilometro dal paese. Diverse torce occhieggiavano dalle cime di pali conficcati nel terreno scuro, e le fiamme creavano riverberi rossi e gialli danzanti sopra un mare di cappelli, chiome arruffate e crani lucidi di sudore.

C’era un gran fermento, un vociare diffuso. Udivo qualcuno parlare con voce molto alta, gracchiante; ho capito poi che si trattava di un megafono. Stava ripetendo un numero, come se stessero giocando a tombola, e ogni ripetizione era seguita da strilli gioiosi e applausi.

Non appena ho raggiunto lo schieramento più esterno di quella cortina umana ho tentato di farmi spazio, con discrezione, per avvicinarmi e sbirciare.

Quella gente (lineamenti intagliati nel legno, occhi lucidi, gote avvampate) mi ha fissato per qualche istante mentre tentavo di incunearmi, poi ogni testa è tornata a voltarsi verso quanto si stava svolgendo nello spiazzo davanti a loro.

D’improvviso ho sentito qualcuno tirarmi per la giacca, e mi è stato chiesto:

«Giovane, lei ce l’ha il numero?»

Credo che la mia espressione frastornata abbia risposto per me, perchè subito mi sono ritrovato in mano un pezzetto di carta.

«È per l’estrazione a sorte», mi ha frettolosamente spiegato un tipo basso con un paio di occhialini sghembi sulle cui lenti si riflettevano, minuscole, le lingue rosse delle torce. «Prima volta che partecipa?»

Non mi è stato necessario rispondere.

«Benvenuto alla Festa, amico», ha incalzato l’uomo dall’alito al lambrusco. «È arrivato giusto in tempo per assistere alla terza gara di tiro alla fune. Il nuovo reggitore è appena stato sorteggiato!»

Ho dovuto sgolarmi per farmi udire sopra il marasma di esclamazioni e incitamenti:

«Quante gare ci saranno?»

L’ometto mi si è accostato alle orecchie. «Oh, in tutto lo si fa sette volte! Le spiego al volo: la fune viene tirata da quattordici persone, sette da una parte e sette dall’altra. Un gruppo rappresenta le famiglie che possiedono i campi a nord del paese, l’altro quelle dei campi a sud. E se ne saltano di più da una parte rispetto all’altra, allora quelle sono le famiglie fortunate, avranno un anno di fertilità e maggiore abbondanza di raccolti!»

Ero sul punto di domandare che cosa dovesse saltare di qua o di là, quando il tizio mi ha liquidato con impellenza:

«Ecco, stanno per ricominciare. Si goda lo spettacolo!» Detto ciò è scomparso in avanti, fondendosi con la folla esagitata.

A quel punto non ho potuto fare altro che guardare, lasciandomi trasportare dall’impeto dell’onda emotiva che dal semicerchio di spettatori si precipitava a frangersi sul nucleo pulsante della Festa, su quegli uomini accalorati che tiravano, tiravano, lanciando grugniti, digrignando i denti. Ho cercato di farmi avanti, di vedere meglio, di osservare quei volti deformati dallo sforzo, di memorizzarli per poterli descrivere; poi, ho individuato la figura che si dibatteva al centro dello spiazzo, reggendo la fune a braccia tese come se fosse in croce, neutrale ma imprescindibile presenza in mezzo ai due furiosi gruppi in lizza, gli occhi strabuzzati a contemplare l’esaltazione del pubblico. Ecco dunque il reggitore

Avrei forse dovuto scattare qualche foto, ma non mi è passato neppure per la mente. Quanto è accaduto durante i minuti successivi, nella mia memoria non segue un concatenamento logico. Per certo so di essermi allontanato di corsa, prendendo a spallate uomini e donne che mi hanno rivolto parole irose e volgari. Ho raggiunto la mia auto, ho messo in moto con dita che a stento riuscivano a reggere il mazzo di chiavi, e mi sono lasciato Borgo Minore alle spalle il più velocemente possibile.

Ricordo confusamente di aver continuato a intravedere il rossore delle fiaccole che baluginavano minacciose nel buio, in lontananza, dallo specchietto retrovisore. Avevo la nausea, e non so cosa abbia trattenuto il mio stomaco dal rovesciarsi come un guanto. Credo di aver pensato, assurdamente, all’articolo che avrei dovuto scrivere, e mi sono ritrovato a sghignazzare come un ebete di fronte alla notte che si addensava contro il parabrezza, quasi cercasse di rallentarmi. Non ce l’avevo col mio direttore, no. Non troppo, perlomeno. Non poteva certo immaginare a che razza di incubo sarei andato incontro.

Perchè non riesco più a dormire sereno, la notte. Continuo a udire quelle grida di esultanza intrecciarsi con morbosità ai rantoli di volontaria ed estatica sofferenza del reggitore. E rivedo quella fune, tesa allo spasmo fra le mani nodose dei contendenti, arrotolata nel centro, con un solo semplice giro, attorno al collo dell’eroico disgraziato chiamato dalla sorte a decretare quali campi avrebbero goduto di maggiore fertilità…

La Festa del Campo Rosso, certo… Rosso per il sangue schizzato dalle teste che la corda tirata spicca dai colli e scaglia a roteare contro le indifferenti stelle d’agosto.

Quando mi sveglio, ansando nel silenzio della notte, fatico a convincere il mio cuore che quei contadini non siano lì con me, nella stanza, attorno al letto, soddisfatti per aver finalmente concluso la loro caccia. Vorrei poter ragionare più lucidamente, ma sono logorato dell’insensata paura che mi stiano cercando. Mentre fuggivo da quel paese da incubo, al di sopra delle urla festose che si levavano dietro di me ho udito distintamente la voce – un’implacabile, ruvida condanna vomitata dal megafono – chiamare un numero per il successivo tiro alla fune…

Quel numero era il mio.

 

[Prima pubblicazione: Mystero, lug.2002]