HO VISTO IL SANGUE

Ho deciso di smettere. È stata l’ultima volta, davvero. Dopo quanto è accaduto la settimana scorsa, significherebbe solo insistere nel farmi del male. Ormai non ha più senso.

Il pomeriggio non poteva essere più grigio, più pesante. Il cuore mi batteva all’impazzata mentre con passi nervosi percorrevo quella via, alla mercè delle sgraziate scorribande di foglie morte strapazzate dal vento di novembre. Una pioggerellina acuminata non aveva cessato di affliggermi fin dal mattino, quando ancora l’umore plumbeo e pulsante del sogno si trastullava aggrappato al mio cervello come un ragno dalle zampette uncinate. E quando ho raggiunto il numero civico che stavo cercando, il cuore è parso fermarsi di colpo assieme alle mie gambe.

Eccomi ancora una volta nella solita, odiata condizione: davanti a una casa estranea, davanti a un campanello. Per fare la cosa più folle e inutile di questo mondo.

Ho letto il nome sulla targhetta applicata al pilastro di mattoni di fianco al cancelletto: “Mattioli”. Non avevo dubbi. Quei sogni non mi ingannano mai.

Ho inspirato a fondo, forse già cosciente del fatto che avrei fallito. Poi ho suonato.

L’attesa è durata quasi un minuto. Me ne sono rimasto immobile, come il fantoccio che sentivo di essere: bagnato, sbeffeggiato da un vento gravido di frammenti di foglie avvizzite, le mani scomparse nelle tasche del cappotto per nascondere le unghie conficcate nella pelle. Non avrei suonato una seconda volta, non lo faccio mai. E quando già temevo (o speravo) di essere venuto fin lì per niente – in una cittadina in cui non ero mai stato, per scambiare parole insensate con una sconosciuta – una serratura in fondo al breve vialetto d’ingresso è scattata, e la porta si è aperta. Non di molto, ma quel tanto da permettere a una figura femminile di stagliarsi nel vano. Ho deglutito a vuoto.

Era lei. Castana, sui quarant’anni, di corporatura piuttosto robusta. Sapevo che non avrebbe potuto essere diversa da come l’avevo sognata.

«Buonasera!…» ho biascicato, cercando di farmi udire nonostante il vento e la pioggia che accennava a farsi più irrequieta. «La signora… Mattioli?»

La donna è rimasta a fissarmi con aria ottusa. Mi sono accorto solo in quel momento che indossava un accappatoio di spugna rosa. Non era certo il momento giusto, per una visita. Ma per una visita come la mia non sarebbe stato mai il momento giusto. Doveva sentire freddo, là sulla soglia. Teneva il colletto ben serrato con le dita, colletto sul quale ricadeva un groviglio scuro di capelli bagnati.

«Sì», mi ha risposto, gli occhi ridotti a fessure, e io ho dovuto tendere l’orecchio per catturare la sua voce. «E lei chi è?»

In quel preciso momento ho saputo, d’istinto, che non potevo, non dovevo più farlo. Nella frazione di un secondo ho vissuto la scena, ho ascoltato il delirio che sarebbe uscito dalle mie labbra: Lei non mi conosce, signora, ma io l’ho sognata. Io faccio dei sogni, fin da bambino. Sono un veggente. Sogno gente che viene uccisa. E ho sognato lei, ho visto il sangue, ho visto il rasoio! È un presagio, mi creda! Entro ventiquattr’ore lei potrebbe essere ammazzata! Sono qui per avvisarla! Mi lasci spiegare!…

Ecco quello che avrei detto. Ma non l’ho fatto. Non ho detto nulla. Sarebbe stato inutile. Sono rimasto muto, un bamboccio che si andava inzuppando, fissando la donna che con occhi gonfi di riprovazione tornava a scomparire lentamente nel buio dietro la porta. Sarebbe morta. E io non avevo neppure provato a salvarla.

Allontanandomi da quella casa mi ha seguito come un’ombra la sgradevolissima sensazione di non aver colto un dettaglio e le sue implicazioni, di non aver decifrato un segnale. Ma ho subito scacciato il pensiero, nauseato. Li ho scacciati tutti quanti. E ho lasciato che pioggia e lacrime mi lavassero il viso.

Due mattine dopo ho ritrovato il viso di quella donna sul giornale.

Era morta, naturalmente. Succede sempre, quando faccio quei sogni. Ho cominciato a leggere l’articolo, stancamente; e ho dovuto sedermi per impedire alle gambe di lasciarmi cadere davanti al bancone del bar.

Il volto nella foto non era quello della vittima, ma dell’assassina. Monica Mattioli – la donna che nel mio sogno stava riversa in un lago di sangue, la gola aperta da un taglio netto – viveva con Manuela, la sorella gemella, psicolabile. E mentre Monica stava facendo il bagno, Manuela si era procurata un rasoio… Inoltre, l’ora presunta del delitto si aggirava fra le 15 e le 16 del giorno in cui mi ero presentato a casa Mattioli per recapitare il mio inutile vaticinio. Solo che io ero arrivato dopo le 17. L’omicidio era già avvenuto!

Vengano pure i sogni, da oggi in poi. Mi accontenterò di ignorarli. Questo caso mi ha distrutto. Perchè un’idea assurda si è infiltrata fra i miei pensieri, e non riesco a liberarmene. Il particolare che era rimasto sepolto dentro la mia testa in quel piovoso pomeriggio è riemerso, e mi sta macerando la coscienza.

Continuo a rivedere, nel buio, il volto di quella donna sulla soglia di casa. Quella donna pallida che teneva il colletto dell’accappatoio rosa chiuso davanti alla gola. Ma il colletto era più scuro, certo. Attraverso le dita contratte della donna, avevo visto il sangue di cui si andava impregnando, lentamente, inesorabilmente, nell’ombra del porticato. E allora non posso più fare a meno di domandarmi, in ogni momento del giorno e della notte: con quale delle due sorelle, mio Dio, mi sono trovato a parlare quel giorno? Con quale delle due?!

 

[Prima pubblicazione: Mystero, nov. 2001]