Periferie

Lenzuola di flanella sbiadite, un tempo rosa a stampa provenzale, ora profumate di lavanda, avvolgevano il suo corpo. La luce fioca di una lampada rossa su una mensola laccata di bianco era l’unica illuminazione di quella stanzetta di pochi metri quadrati riempiti da un piccolo e stretto armadio a muro e da un letto a castello color rosso tramonto che condivideva con una coinquilina. I suoi occhi faticavano a restare aperti e il manuale di fisiologia umana che teneva tra le mani, pareva contenere nozioni ormai incomprensibili. Era giunto il momento di riposare per una notte intera. Un cigolio metallico proveniente dalla cucina comunicava chiaramente che, anche chi dormiva nel locale deputato ai pasti, aveva deciso che fosse giunta l’ora di spegnere le luci, ed infatti dopo pochi minuti quel minuscolo bilocale divenne completamente buio e silenzioso. Silenzio. Silenzio tra i pensieri del dormiveglia, che come eterei foulards primaverili, proteggono dalla brezza e dai ricordi. Buio come buia è ogni notte che non sa divertirsi e illuminarsi con il colore scoppiettante dei fuochi artificiali. Silenzio tra i libri chiusi ammonticchiati sulla mensola. Buio come è buia una notte senza luce e senza stelle capace di disorientare anche il più abile dei navigatori fenici. Buio per nascondere i pensieri e concedersi al riposo. Silenzio, come quiete e pace. I pensieri indossavano le sembianze del dormiveglia e si erano dipinti di colori pastello dalle tonalità tenui, quando si avvertì un boato che, come un urlo di ira incontrollato, coprì ogni ninna nanna e fece catapultare giù dal letto ogni abitante di quella via nel quartiere periferico di un’antica e prestigiosa città universitaria.

Quel rumore, come un grido trattenuto troppo a lungo, di botto scoppiò incontrollato. Quel rumore violento come un pugno, uno sgambetto, una parola capace di ferire e di rimbalzare a lungo nella memoria, quel rumore maleducato senza bussare, senza chiedere il permesso, si intrufolò nei sogni di ognuno e risvegliò tutti all’improvviso.

Come ci era finita in una di quelle sei palazzine, l’unica di color mattone tra le altre verde pisello? Come ci era finita lei che abitava in una grande casa colonica dai muri spessi, dai soffitti alti e dai pavimenti in marmo, che sua madre faceva brillare ogni fine settimana con la cera stesa a mano. Come ci era finita in uno di quei 288 piccoli alveari di 28 metri quadrati con pareti sottili come cartone e porte cigolanti che condivideva con altre due persone?

Di sicuro solo il terremoto l’aveva svegliata bruscamente nella notte molti anni prima, ma quel boato di certo terremoto non era. A lei mancava l’esperienza per capire; un rumore simile lo aveva sentito solo durante la festa del paese quando c’era lo spettacolo pirotecnico e tutti restavano con gli occhi immobili a guardare verso il cielo che si dipingeva di molti colori scoppiettanti. Ma di certo quell’unico boato non era dovuto a festosi fuochi artificiali. Eppure quello fu il suo unico pensiero anche mentre si infilava le ciabatte viola a cuoricini rosa e insieme alle sue amiche si trovò con le chiavi in mano a percorrere lo stretto corridoio che conduceva all’uscita. Ragazzi veloci e tutti in pigiama come lei, affollavano le scale fino a giungere nel fatiscente ingresso in cui si trovavano ammassate una sull’altra biciclette sgangherate: la bicicletta fedele mezzo di trasporto di ogni studente universitario. In quel luogo tra il vociare rumoroso e gli urti ricevuti da chi pensa di affrontare ogni cosa con la fretta e di scappare velocemente da ogni situazione non curandosi della presenza altrui, lei si tastò il corpo, si guardò, sul polso destro l’orologio di plastica bordeaux ed un elastico per capelli giallo, preziosi compagni di giorno e di notte, un livido bluastro sulla coscia destra proprio lì dove il pizzo bianco faceva da orlo alla camicia da notte scolorita, le donava una sensazione di imbarazzo, mani bianche, con unghie corte rese vivaci da uno smalto viola, erano l’unico vezzo sul suo corpo. Ma da cosa stava scappando con quella strana divisa e le babbucce ai piedi?

Il portone di metallo era spalancato, si ritrovò, tra una spinta e l’altra, nel cortile interno di quelle palazzine, cortile tortuoso che pareva essere stato costruito per giocarci a nascondino o per nascondere qualcosa: e lì le cose da nascondere di certo non mancavano. Il cielo nero della notte davanti a lei era illuminato e quello che vide le sembrò una scena tratta da un telegiornale o da un film. Vide la carcassa di un’auto che come il corpo di un animale ferito sembrava perdere sangue e schizzare di rosso l’oscurità del cielo. Dai vetri rotti del parabrezza uscivano due vampate gialle che come magnetici occhi fosforescenti, catalizzavano l’attenzione della folla e gettavano foschi bagliori alle tenebre. Sopra la tettoia si intravedevano pennellate di luce quasi bianca che parevano mèches su ciocche di capelli ribelli. Le stesse ciocche di capelli ribelli avevano alcune donne dalle labbra rosso fuoco, avvolte in abiti improvvisati che lasciavano intravedere la carne delle cosce e del seno mentre correvano con scarpe dai tacchi a spillo inseguite da uomini che non volevano lasciarle andare via. Il rumore dei gettoni nelle vecchie cabine dalle porte sgangherate scandiva le telefonate di chi cercava di andare lontano da lì. I giubbotti in finta pelle nera e i cappucci ben tirati sulla fronte nascondevano i volti di chi, per nulla stupiti da quel brusco risveglio, camminavano lentamente per poi dileguarsi prima dell’arrivo dei vigili del fuoco e della polizia. L’arte dell’occultare, del resto, per loro era un’abitudine, con destrezza nascondevano nei luoghi più improbabili ciò che vendevano nell’oscurità e con destrezza si sapevano nascondere nei luoghi più impervi ed inaspettati. Il rumore delle sirene presto lasciò posto al vociare di chi raccontava quello che aveva visto, sentito, immaginato al personale in divisa. Poi piano piano alle luci dell’alba tutto tornò come prima. In quei formicai gremiti di persone si avvertì odore di caffè, mentre le prime biciclette cigolando, si dirigevano verso le aule universitarie, solo il popolo della notte si concedeva il tempo del riposo.

I giornali riportarono l’accaduto, ma chi viveva in quei palazzoni aveva poca voglia di parlarne.

Continuarono nei giorni successivi a raccontare della notte di paura, di chi si era svegliato di botto e ora conviveva da diversi giorni con la tachicardia, ma della paura vissuta non se ne parlò.

Qualcuno quella notte fece le valigie e non tornò mai più, lei le fece un anno dopo e si trasferì in una vecchia casa umida in cui finì i suoi anni universitari avvolta da sciarpe e foulards mangiando pasta scondita e ricotta per fare quadrare i conti.

Molti anni dopo: il profumo della pasta al forno avvolgeva la casa, lei si fermò con il coltello piantato sulle lasagne, rivide, al telegiornale delle 13, quelle palazzine e quei mini appartamenti che come piccoli alveari brulicavano come sempre di ogni attività. Un muro!

Con un muro avevano diviso le palazzine. Sì, le avevano divise con un muro dal resto di quella città in cui si era laureata e che le era rimasta nel cuore.

Si rivide ragazza. Rivide la sua bici da uomo sgangherata depositata nel sottoscala. Rivide nella sua mente quella notte di molti anni prima.

Ripensò ai tanti volti di chi credendosi invincibile aveva perso la dignità, la libertà, la vita, di chi sentendosi forte aveva venduto fragilità, e fragile si era dimostrato.

Pensò che forse sarebbe bastato restare, che se tutti dopo quella notte non fossero piano piano andati via, forse non si sarebbe arrivati a costruire quel muro. Il muro…

Il muro… le ricordò inoltre il nome della rappresentazione teatrale che raccontava la storia del quartiere della città dove ora viveva da anni.

Finalmente si decise a tagliare la pasta al forno. Mentre la lama affondava nettamente, altrettanto nettamente percepiva che il suo cuore era da sempre rapito dalle periferie e dai volti di chi le abita.

(Anna Cervellati)