LO SPETTACOLO DEVE CONTINUARE

Nel momento in cui il Grande Santini si sedette sopra il ventre del ragazzo ipnotizzato, lo sparuto pubblico in sala si esibì nell’ennesimo fiacco applauso. Quel suono lo aveva accompagnato praticamente per tutta la vita: palmi delle mani che battono gli uni contro gli altri, con infantile entusiasmo o compiacente indifferenza, levando invisibili sciami crepitanti a spegnersi contro oscuri soffitti di teatrini di provincia.

Santini sorrise, come da copione, ben sapendo che l’amarezza di cui i suoi occhi erano intrisi non sarebbe mai arrivata agli spettatori. Fino a qualche anno prima, considerò, era abituato a salire in piedi sopra il corpo irrigidito del volontario di turno, incosciente e sospeso orizzontalmente su due sedie, appoggiato unicamente con la nuca da una parte e i talloni dall’altra; ora, invece, a sessantaquattro anni suonati, era diventato impegnativo anche solo issarsi a sedere sulla ‘cavia’. Quello era un vecchio numero col quale solitamente terminava il suo spettacolo di giochi di prestigio prima di profondersi in un inchino e cedere il palcoscenico alle ballerine, al cabarettista, al cantante o a chiunque altro lo seguisse nel programma.

Con le opache luci della ribalta puntate sulle pupille, si concesse un secondo per riflettere un’ultima volta sulla decisione presa. Quella che era stata la sua vita gli parve riassumersi, concentrarsi, raccogliersi stancamente in quell’istante, su quel palcoscenico, o su mille palcoscenici identici a quello, di fronte a sconosciute ombre fischianti o plaudenti sparse nel golfo oscuro di una sala. Si soffermò a sfiorare il pensiero di ciò che lo attendeva a casa, sera dopo sera, anno dopo anno. Vuote stanze in affitto, affollate solo dai ricordi di una moglie perduta troppo presto, di un figlio mai avuto, di sogni inseguiti e mai raggiunti. Una vita spesa a regalare illusioni, fra cilindri colmi di meraviglie, colombe, carte da gioco, specchi nascosti dentro scatole incantate… Illusioni, solo illusioni. Ed erano tutto ciò che gli restava.

Con un goffo balzo saltò giù dal ventre del volontario addormentato, e non avendo vallette a disposizione sfilò dapprima la sedia dalla parte dei piedi, quindi quella che sosteneva il capo, lasciando il giovane disteso sulle sporche assi del palco.

«In piedi!» gli ordinò, in tono altisonante. «In piedi, adesso!»

Il ragazzo, sempre a occhi chiusi, si tirò a sedere; poi, con movimenti un po’ impacciati, si alzò. Il pubblico rimase muto.

Santini, da veterano del teatro, non abbandonò il proprio sorriso, tenendoselo ben appiccicato al viso assieme al cerone che gli copriva le rughe. Ciò che stava per fare probabilmente – anzi, sicuramente – non sarebbe piaciuto. Ma in fondo, a ben pensarci, tutto fa spettacolo.

«Ora, mio baldo giovane,» declamò, «è venuto il momento di risvegliarsi! Ma ricordati ciò che sto per dirti: appena sarai di nuovo sveglio, la prima cosa che farai sarà… il verso della gallina!»

Un velo di risolini fluttuò fra gli spettatori. Solitamente, il numero terminava così: un bizzarro comando inviato alla mente ancora vulnerabile del soggetto, il quale puntualmente lo eseguiva appena dopo il risveglio. Che si trattasse di imitare il verso di qualche animale, o esibirsi in una serie di giravolte, o assumere una buffa espressione facciale, non aveva importanza. Santini decideva sul momento, in base all’ispirazione. La cosa funzionava sempre, e il pubblico si divertiva offrendogli con applausi e risa l’occasione di assaporare almeno un barlume di gloria mentre tornava a scomparire dietro le quinte per ricevere la puntuale, compassionevole pacca sulla spalla da parte dell’impresario. Quella sera, però, ci sarebbe stato un piccolo cambiamento nel programma.

Prima di risvegliare il ragazzo – immobile e compunto al centro della scena – Santini gli si avvicinò e rapidamente gli sussurrò alcune parole all’orecchio. Quindi riprese fulmineo le redini dello show, prima che qualcuno si ponesse delle domande, e assestando lesti colpetti coi polpastrelli sopra le tempie dell’ignaro volontario prese a gridare con fare istrionico:

“Svegliati uno!” E batté le mani.

“Svegliati due!” Altro colpo.

“E… svegliati tre!”

Al terzo battito di mani il ragazzo sollevò lentamente le palpebre e prese d’istinto a sfregolarsi gli occhi come farebbe chiunque appena destato da un lungo sonno. Il pubblico rimase silenzioso, nell’attesa di verificare se il numero del Grande Santini sarebbe riuscito fino in fondo.

Il prestigiatore non fece un solo movimento. Avrebbe dovuto sentire il proprio cuore battere all’impazzata, invece non si era mai sentito tanto tranquillo come in quell’eterno momento, sospeso sopra il baratro del tempo. E quando il giovane, muovendo il collo avanti e indietro, prese a starnazzare di fronte agli spettatori, questi finalmente si riscossero ed esplosero in una generale risata. Santini, allora, come consuetudine, si inchinò davanti a tutti loro, rimanendo curvo, a occhi chiusi, le labbra nascostamente tirate in un sorriso questa volta sincero.

Il ragazzo, al termine della poco dignitosa imitazione, si mosse con prontezza. Voltandosi, raggiunse le piccole sciabole posate sopra un tavolino, quelle che il vecchio prestigiatore aveva utilizzato per fingere di infilzare un coniglio dentro un cesto. Conficcandole con la punta, le lame risultavano retrattili; usate di taglio, invece, potevano rivelarsi pericolose. Il ragazzo ne afferrò una per l’elsa, con entrambe le mani, e con aria marziale tornò al centro del palcoscenico. Applausi e risa si interruppero all’istante, e nessuno poté far nulla, se non guardare.

La lama venne sollevata, e scintillò con fierezza giocando fra le luci dei riflettori prima di calare con ferale precisione sul collo ancora chino, in attesa, di Santini.

Un copioso getto di sangue si riversò contro le prime file della platea, misericordiosamente vuote. Il corpo del mago si accasciò come un grosso pupazzo abbandonato.

Lo scompiglio generale scosse il teatro, in sala e dietro le quinte. Le donne presero a strillare, e diversi uomini si alzarono per correre a vedere da vicino. Qualcuno, invece, non si mosse neppure, credendo di assistere a un truce gioco di prestigio.

Sul palco, intanto, il giovane decapitatore piagnucolava, lo sguardo stralunato: «Non volevo! Non sono stato io!…» L’ordine impartitogli all’orecchio già aveva abbandonato la sua memoria.

Il capo di Santini, rotolato oltre la ribalta, si smarrì nel buio polveroso sotto alcune sedie. Lo spettacolo poteva benissimo andare avanti anche senza di lui. E il mondo avrebbe fatto lo stesso. Era una consolazione da poco, ma poteva bastare. Per questo, chi lo trovò e lo raccolse non avrebbe mai più dimenticato l’espressione di quel volto.

Sorrideva ancora.

[Prima pubblicazione: Mystero, gen. 2003]