MI PERDONI, PADRE, PERCHÉ HO PECCATO

Don Bruno non lo riconobbe subito, probabilmente perché non si aspettava di ritrovarselo lì, in chiesa, e per giunta inginocchiato fuori dal confessionale. Ma non appena l’uomo lo ebbe salutato (e il sentore di alcol veleggiante nel suo alito ebbe varcato la sottile grata traforata che separava il peccatore dal redentore), il sacerdote non ebbe dubbi sul fatto che si trattasse di Giacomo, e anche se lo conosceva da una ventina d’anni il fatto di scoprirlo lì – lui che non entrava in una chiesa dal giorno del matrimonio – glielo fece apparire per un curioso istante quasi un estraneo.
«Buongiorno, Giacomo. Mi fa piacere incontrarti qui. Cosa ti porta nella casa di Nostro Signore?»
L’uomo inspirò rumorosamente dal grosso naso, sfregandoselo con dita tozze e callose da muratore in pensione. Si schiarì la gola, in evidente imbarazzo.
«Voglio… voglio confessarmi, padre.»
Don Bruno annuì, sorridendo all’ovvietà di quella dichiarazione. Giacomo era sempre stato considerato un tipo un po’ bislacco, uno di quei coloriti personaggi di paese la cui testa non sempre girava sullo stesso perno; dalla sua bocca uscivano spesso discorsi strampalati, e i clienti del Bar Centrale il più delle volte si sforzavano per memorizzarli e poterli poi riportare a chi era assente, perché non andassero perduti. La moglie di Giacomo, Marta, era una pia donna che preferiva trascorrere in chiesa la maggior parte del suo tempo, aiutando come poteva; don Bruno (e non solo lui) immaginava che buona parte della spinta a tale attivismo parrocchiale fosse in fondo da ascrivere al desiderio di rimanere il meno possibile in compagnia di un uomo tanto burbero e imprevedibile. Non era mai stato un violento, questo no; o almeno, non nel senso che comunemente spingerebbe una comunità a bollare un uomo come tale. Comunque fosse, la sua presenza al confessionale con l’intento di vuotare la coscienza era per don Bruno motivo di piacevole perplessità.
«Dimmi, dunque, Giacomo. Ti ascolto.»
Qualche attimo di esitazione, quindi la voce roca di Giacomo prese a impastare frasi e a sospingerle contro la grata in modo che si disgregassero in miriadi di particelle sonore prima di ricomporsi e raggiungere le orecchie del confessore. Durante questo processo, poteva accadere che il senso stesso del discorso si sfaldasse e non riuscisse poi del tutto a conservare la propria integrità, una volta giunto all’ascoltatore, per quanto attento egli fosse. Nel caso di Giacomo, don Bruno fu in breve assalito dal sospetto che, più che una confessione, quella che stava ascoltando fosse solo un’avvilente sequela di balordaggini.
«Mi perdoni, padre, perché ho peccato. Ho bestemmiato contro una bottiglia di vino che non si voleva aprire. Ho messo i calzini spaiati, e sono uscito a fare un giro in bicicletta con una gomma mezza sgonfia. Ho mollato uno scappellotto a una gallina, ma non perché mi avesse fatto qualcosa, no. Le mie galline sono brave. Fanno sempre il loro dovere. Però mi è venuto così, come si dice… d’istinto, ecco! Comunque non le ho fatto male…»
Don Bruno si accomodò meglio sul rigido cuscino, cercando di ripristinare la circolazione di un piede che gli si era informicolato. Bisbigliò un inaudibile appello al Signore perché gli desse la forza di continuare a svolgere il proprio ministero senza cedimenti, e soprattutto senza nutrire pensieri poco nobili nei confronti di pecorelle smarrite (o brille) come quella che gli stava di fronte.
«Ascolta, Giacomo, questi non sono…» si azzardò a interromperlo, in tono paterno. Ma Giacomo continuò, avvicinando ancor di più le labbra alla grata e impestando l’interno del confessionale con invisibili spire etiliche.
«Poi ho detto tante brutte parole a un politico, alla televisione. Non credo di essere l’unico a farlo, ma degli altri non mi importa: è la mia coscienza, quella che voglio pulire. Ho rovesciato il cartone del latte. Ho schiacciato un topo con un mattone. Ho ritagliato una maschera con il giornale, facendo due buchi per gli occhi, e me la sono messa davanti alla faccia, alla finestra, per spaventare i bambini che passano dalle parti di casa mia. Ho strangolato mia moglie con una corda da tapparelle. Ho strappato un pezzo di carta da parati, perché non mi ricordavo più di che colore era il muro sotto, prima che ce la mettessi. Ho cantato a squarciagola alle tre di…»
«Giacomo, ti prego: basta, adesso!»
Don Bruno non avrebbe voluto alzare la voce. La moglie di Giacomo – che si era appena confessata, e ora si trovava inginocchiata a una panca poco distante – sollevò il capo con un’espressione al tempo stesso arresa ed esasperata; quindi tornò a recitare la serie di Ave-Pater-Gloria che il sacerdote le aveva assegnato.
«Giacomo, ascolta…» riprese don Bruno, sottovoce. «Ho capito. Ho capito, davvero. E anche il Signore, che ti legge nell’anima e nel cuore…»
«Davvero, don Bruno? Lei dice che il Signore sa tutto, e perdona tutto?»
«Questo è certo, Giacomo. Ora ascoltami bene: sei pentito dei tuoi… peccati?»
«Sono pentito sì, che discorsi! Sennò non venivo qua…»
«Va bene, va bene,» tagliò corto il sacerdote. L’aria, nel confessionale, si era fatta pesantina. Senza concedere ripensamenti o lasciare spazio a eventuali polemiche o deliri, don Bruno recitò in tono solenne la formula dell’assoluzione, e come penitenza suggerì a Giacomo di pregare tutte le sere, prima di andare a dormire, e di partecipare qualche volta alla Santa Messa, magari anche solo a Natale e Pasqua, per cominciare.
«Allora, posso andare? La confessione è finita?» domandò l’uomo, con una percepibile vena di sollievo.
«È finita, Giacomo. Ora puoi andare a casa tranquillo. Hai fatto bene, a venire, sai? Buona serata, e che il Signore sia con te.»
Giacomo bofonchiò un saluto e un ringraziamento, sollevandosi dall’inginocchiatoio. Don Bruno sbirciò attraverso la tendina viola, seguendolo con lo sguardo mentre si avvicinava a Marta e le porgeva goffamente un braccio per accompagnarla all’uscita. Era proprio vero, rifletté poi uscendo dal confessionale per riprendere fiato, che non è mai tardi per ritrovare la giusta via.
Sul sagrato, Giacomo e Marta si avviarono lentamente verso la vecchia Fiat 124 blu. Era stato facile, pensò l’uomo, più di quanto avesse immaginato. Gli era bastato fermarsi un attimo al bar per un calicino di rosso, in modo che il suo alito raccontasse chissà quale sbornia, prima di entrare in chiesa. Poi, rifilare al prete una sfilza di sciocchezze gli era riuscito decisamente naturale.
Giunti all’auto, aprì addirittura lo sportello dalla parte del passeggero per far salire Marta, che accolse quasi con sgomento l’inusitata galanteria. Quindi Giacomo aggirò il cofano e salì a sua volta, senza togliersi dal viso un sorrisetto sbilenco. Accendendo il motore, ripercorse con la fantasia le tappe del suo progetto serale: chiudere per bene porte e finestre, recuperare il pezzo di corda da tapparelle che aveva accuratamente nascosto sotto al letto, e procedere con efficienza. Quella vecchia beghina avrebbe finito di piantarlo lì da solo, in casa, come un povero babbeo. Preferiva servire il Signore, piuttosto che il suo legittimo marito? Bene, l’avrebbe accontentata. Quella sera stessa si sarebbe ritrovata a fare le faccende nella casa del Padre…
Per quanto riguardava la voce della coscienza, Giacomo ora non aveva più alcun problema. Del resto, don Bruno lo aveva già assolto.
(Pubblicato su L’Ippogrifo, 2010)