LA “LEGATURA”

In paese la conoscevano come la Maga. Tutti, per strada, la salutavano con particolare cordialità, perchè sotto sotto a nessuno avrebbe fatto piacere suscitare il suo disappunto; era una di quelle anziane signore che “fanno cose strane”, anche se non avreste trovato un’anima disposta a dirvi di quali cose si trattasse, o ad ammettere pubblicamente di nutrire fede nelle sue pratiche. Di fatto, la Maga riceveva visite pressochè quotidiane da parte di persone – in maggior numero donne – che macinavano anche chilometri su chilometri pur di sottoporle i loro casi e pregarla di “fare qualcosa”.

La prima impressione era di tipo olfattivo. Chiunque entrasse in quella casa, e soprattutto in quella stanza, non poteva fare a meno di portarsi istintivamente la mano davanti al naso, con molta discrezione, nell’attesa di abituarsi gradualmente al lezzo prodotto dai vari bastoncini d’incenso sparsi un po’ ovunque. Fu quello il motivo per cui la Maga, seduta al suo tavolinetto in noce, accolse Paola Giorgi con tono vagamente seccato:

«I miei incensi le danno fastidio, signora?»

Paola deglutì a vuoto, e subito allontanò la mano dalle narici.

«No, no… È solo che…»

Inutile stare a giustificarsi con la Maga. I suoi occhietti porcini scrutavano la visitatrice in maniera implacabile, e appariva impensabile poter mentire, anche su una questione di così poco conto.

«Si sieda, e mi dia la fotografia.»

Paola si accomodò su una seggiola scricchiolante, di fronte alla Maga (permettendosi una fulminea occhiata attorno, agli scaffali ricolmi d’ogni genere di indefinibile paccottiglia immersa nella penombra), e senza indugi estrasse dalla borsetta la foto di una donna. Non era un’immagine molto chiara; si trattava di una ragazza dai lunghi capelli biondi, immortalata da una certa distanza nell’atto di salire a bordo di un’automobile: uno scatto evidentemente “rubato” all’insaputa del soggetto.

«Il nome della…» Paola si morse la lingua per troncare sul nascere l’epiteto che le era salito dal cuore. «…è Sabina. Il cognome non lo conosco. L’auto è quella di mio marito. Che non si vede, perchè è in ombra. Ma è seduto al volante.» L’astio che pulsava dietro ogni parola le colava addosso come ruscelli lavici lungo le pendici di un vulcano.

La Maga afferrò la foto, osservandola un istante con apparente superficialità, quindi la posò davanti a sè, sul tavolino. Da un cassetto laterale, poi, fece comparire un pezzetto di spago, una manciata di sale grosso e alcune graffette da ufficio deformate e annerite. La sua voce risultava assolutamente atona, scivolando placida sul silenzio che si interponeva caparbio fra un suono e l’altro.

«Al telefono mi ha detto che vuole legare questa ragazza, in modo che non dia più fastidio a suo marito. Vuole farle del male? O peggio?»

Paola si riscosse dal torpore che l’aveva colta, complici gli esotici aromi che stagnavano nell’angusto locale e la soporifera luce di un abat-jour dal paralume in uncinetto un tempo bianco reso giallastro dal calore.

«No, no, niente di male. Non per il momento, almeno. Mi basta che stia lontana da lui, che non lo cerchi più. Voglio che sparisca dalla nostra vita…»

La Maga annuì. Capiva perfettamente la situazione. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Con il palmo della mano spinse il mucchietto di sale sopra l’immagine della bionda, poi ripiegò la fotografia in due e vi appuntò le graffette deformate lungo i bordi. Infine legò il tutto con lo spago, creando una sorta di bozzolo, aiutandosi con i denti per stringere il nodo.

«Ecco fatto», annunciò. E il bozzolo grigiastro scomparve nel cassetto. «Da questo momento, la ragazza non sarà più un problema.»

Paola avrebbe preferito non sorridere, ma fu più forte di lei. I suoi polmoni inalarono in profondità la mistura di afrori che la circondava, trovandola ora non più sgradevole, ma quasi corroborante. Il cuore pareva essersi alleggerito di una penosa zavorra. Il fatto che il rituale non fosse stato né lungo né complesso l’aveva spiazzata, piacevolmente. Non vedeva l’ora di andarsene da quella casa. Frugò nella borsetta con mani tremanti, e ne estrasse una busta che posò davanti alla Maga.

«La mia offerta, come d’accordo…»

La Maga accennò un inchino. Non una parola. L’incontro era concluso.

Con una punta d’impaccio, Paola si alzò e uscì dalla stanza biascicando ringraziamenti e saluti.

L’aria fresca del pomeriggio l’accolse come un amico dimenticato che volentieri si torna ad abbracciare. Si sentiva leggera, sicura di aver fatto il passo giusto, la coscienza perfettamente a posto. Raggiunse l’auto, e si predispose a percorrere gli oltre cinquanta chilometri che la separava da casa.

Fu pochi minuti dopo aver imboccato l’autostrada che si accorse delle gocce rosse che le stavano cadendo sulle gambe. Contemporaneamente un improvviso, feroce mal di testa le mise in funzione un trapano dietro la fronte.

Lanciò un’occhiata nervosa allo specchietto. Stava perdendo sangue dal naso…

Ebbe appena il tempo di registrare, attraverso il dolore bollente che le dilagava nel cranio, l’anomala prospettiva assunta della strada al di là del parabrezza. Subito dopo venne lo schianto. Squarcio di guard rail, urlo di lamiere, coriandoli di cristallo… E poi il volo, senza fine, giù dal cavalcavia, nella gola arroventata del nulla. Verso il buio.

* * *

Nel silenzio della stanza, il sospiro della Maga risuonò sinistro. Non si può certo parlare di etica professionale, quando si ha a che fare con fatture, malocchi e “legature”; si può comunque supporre un fluido bagaglio personale di direttive morali a cui si decide di attenersi. Una di queste riguarda la segretezza, e l’anonimato dei propri clienti.

Che Paola avesse informato il marito dell’intenzione di rivolgersi alla famosa fattucchiera – nel caso non avesse interrotto subito la tresca – era stata una mossa decisamente avventata. Il marito, com’era prevedibile, ne aveva parlato con l’amante, che a sua volta non aveva perso tempo. Sabina era stata lì appena due giorni prima.

La Maga aprì il cassetto delle “legature”, dove aveva riposto la foto col sale arrotolata nello spago. Accanto a quella ce n’era un’altra: l’immagine di Paola Giorgi con una spilla da balia la cui punta penetrava giusto al centro della fronte. Avrebbe potuto avvisarla, ma non sarebbe stato corretto. Che la sua giovane rivale avesse chiesto per lei una “legatura a morte”, nel caso si fosse davvero presentata per intralciare la sua relazione col marito, doveva restare un segreto.

[Prima pubblicazione: L’Ippogrifo, gen. 2008]