“Sulla Cantoria” di Enrico Scavo

SULLA CANTORIA
di Enrico Scavo

Nel meriggio di quel torrido venerdì 9 giugno 1730 si celebravano a Ferrara, presso la piccola
chiesa di S. Girolamo dell’ordine dei carmelitani scalzi, le esequie di Costantino Bassani. Sebbene
la perdita del giovane musico, trapassato poco più che trentenne, avesse scosso la piccola legazione,
ben pochi membri delle antiche e illustri famiglie ferraresi, eternamente affrescate in tanti
seicenteschi scritti di storia patria, ora decadenti nei fronzoli come nei modi, sedevano tra le panche
apparate a lutto. Quel cognome, Bassani, era assai noto a tutti. Le musiche composte sul calare del
secolo XVII da Giovanni Battista, nonno del giovane adagiato sul catafalco ligneo, riecheggiavano
ancora nelle rare accademie musicali che davano lustro alle chiese cittadine. Un’eco riverberata dal
figlio Paolo Antonio che, alla sua dipartita, gli era subentrato alla battuta della cappella della chiesa
madre. Questi, privo di alcun genio creativo e di temperamento indolente – ma dotato di quella
perizia organistica forse naturale per chi, come lui, fosse cresciuto su di una cantoria a voltare le
pagine all’organista o a levare il mantice – non faceva che riproporre le composizioni del «gran
Bassani». L’accettazione della sua torpida vena era infatti, e ben presto, subentrata all’iniziale
desiderio di legittimare, con un saggio della sua raffinata cultura musicale, una posizione che,
stando alle maldicenze serpeggianti in capitolo, aveva raggiunto grazie al deciso intervento di un
partito che, favorendone l’ascesa, intendeva sdebitarsi con il padre per una manciata di Kyrie e Te
Deum ancora da saldare. In fin dei conti, si chiedeva, «perché dannarsi nel tirar fuori dalla spinetta
nuove melodie?». La solida preparazione nel basso continuo e nel contrappunto era sufficiente a
garantirgli un indiscusso primato cittadino, in un panorama musicalmente povero come quello della
sfiorita ex capitale estense (dopo la Devoluzione e il lungo Seicento, divenuto piccolo centro la cui
esistenza era nota ai più per i lustri cinquecenteschi e per la fortezza voluta da Papa Paolo V a
difesa del più settentrionale confine dello stato della Chiesa). Quando poi capitava che qualche
rinomato maestro forestiero transitasse per Ferrara per una rappresentazione da farsi al Bonacossi, a
quel tempo il solo teatro d’opera attivo in città, Paolo Antonio prontamente si rintanava tra le carte
dell’archivio musicale del duomo a scartabellare le composizioni del padre, dando di matto per una
qualche parte di violino andata smarrita. Talvolta uno dei suoi musici lo andava lì cercando
portando una qualche ambasciata: «Maestro, il Vivaldi è in teatro! M’ha detto di chiamarla. La vuol
conoscere di persona. Dice di aver grande stima di suo padre». Paolo Antonio si sporgeva allora al
di là della balaustra reggendosi con una mano e con l’altra dimenando un foglio di carta
pentagrammata arrotolato come se volesse, anche in quel contesto, rimarcare la sua autorità:
«Giovannino digli, con i dovuti modi che si devono a un tal maestro, che qui ho il mio da fare. Se
tanto ammira la mia stirpe non gli sarà di certo difficile capire quanto sia importante tener in ordine
i nostri tesori musicali». La solita, sapida, solfa si ripeteva così ogni volta. Temendo quei confronti
potenzialmente nocivi al prestigio del suo nome, si nascondeva, come fanno i fanciulli arroccati
nelle pieghe della gonna materna, dietro all’estinta sagoma paterna. Aveva così trascorso gli anni e i
giorni, nell’immobile e chiusa penombra delle cantorie cittadine, attorniato dai pochi musici che,
con la paura di patire la fame, si aggrappavano alla sua elegante marsina. Paolo Antonio aveva
scelto di starsene in cantoria anche nel giorno del funerale di Costantino, pur contravvenendo alle
direttive di papa Benedetto XIII che proibivano il suono d’organo e di strumenti musicali nella
messa da requie. Il suo appenato sguardo, spinto da un’amara curiosità, abbandonava di tanto in
tanto il tracciato delle note sul pentagramma per apprezzare, attraverso i marmi delle ringhiere, quel
popolo misto raccolto ai piedi del catafalco. Se le ultime file, perlopiù formate da vagabondi e
indigenti – intervenuti per godere del fresco della chiesa e raccogliere qualche elemosina –,
parevano ai suoi piccoli e miopi occhi un informe ammasso, più nitidamente distingueva le sagome
della paruta schiera di artigiani – assai poco intendenti di musica e niente affatto prossimi alla sua
famiglia, ma soliti prendere congedo dalle loro botteghe ogni qualvolta vi fosse da far messa – e le
piccole parrucche dei pochi nobili che occupavano i primi ordini. Questi, sfaccendati di ogni età e
sempre smaniosi di indossare la cappa, di certo erano affiliati ad una delle tante confraternite di laici
devoti che ancora esistevano in città. Chi dei presenti era spinto dalla sincera e affettuosa
rammemorazione d’un valente giovane di quella patria? «Forse», diceva tra sé e sé il vecchio
Bassani, «questi illustrissimi signori son mossi soltanto dal timoroso rispetto di quei precetti che un
buon cristiano è tenuto ad osservare per la salvazione». Gli occhi tornavano presto al leggio del
piccolo organo fisso. Da quello scranno aveva diretto, venticinque anni addietro, il suo primo e
unico oratorio, Il morto redentore. Il ricordo di quel giorno felice sembrava spegnere il suo doloroso
martirio. «Quant’era bravo il piccolo Costantino», si diceva. Con la coda dell’occhio gli sembrava
ancora di scorgere il fanciullo, seduto al suo fianco, tendersi verso la tastiera dello strumento, quasi
volesse nutrirsi dell’arte paterna. Ma le braccia, troppo corte, finivano per volteggiare nell’aria a
tempo di musica. «Meraviglioso Costantino, meraviglioso! Sei un perfetto battitore». Era maggio,
pochi giorni dopo la celebrazione dell’Invenzione della Croce, e, attraverso le vetrate della chiesa,
un fascio di luce tutto irradiava di vita nuova. Così anche il S. Girolamo posto sopra all’altare
sembrava volersene uscire dalla tela per farsi strada verso la porta maggiore che, spalancata, si
apriva su di un verde prato apparato a festa. Qui alcune monache del Corpus Domini,
contravvenendo alla disciplina, estraevano dalle grandi ceste in vimini mazzetti di fiori, mustazzoli
e frutta candita, distribuendoli a giovani donne attorniate dai figlioletti. Gli uomini, raccolti
all’ombra dei pioppi che delimitavano quel delizioso rinfresco, discorrevano, svagati, del raccolto e
delle imposte deliberate dai Savi. Intanto Giovanni Battista, erto sul sagrato della chiesa, si
intratteneva con quella nobile penna che lo omaggiava della sua presenza: «Marchese Sacrati, la
ringrazio per la visita. Mi auguro possa apprezzare sì fatta sagra composizione. Come di certo
vostra illustrissima saprà, i versi di frate Costantino della Santissima Trinità sono stati avvivati dallo
spirito armonico del mio figliolo Paolo Antonio, già maestro di Cappella d’Onore dell’Altezza
Serenissima di Mantova e vicemaestro della cattedrale e dell’illustrissima Accademia della Morte».
E mentre l’interlocutore replicava, attingendo dal suo repertorio di maniera, il «gran Bassani»
lanciava uno sguardo di lontano al figlio. Incrociando i suoi occhi, pronunciava un cenno col capo,
come a volergli dire: «Su, su! forza! Apprestiamoci a incominciare». Non voleva egli di certo
incorrere in quella multa di 25 scudi prevista per i maestri che presso le chiese e i luoghi pii
prolungavano le funzioni oltre le ore convenienti. Il giovane organista, asciugandosi la fronte sudata
con la manica del camicione, correva allora alla cantoria richiamando i musici, ancora intenti a
mangiare brazzadelle e bere malvasia. Dalla navata, tra l’invisibile nube di profumi, due occhi
azzurri e amorevoli osservavano la scena. Isabella Ursula, moglie di Paolo Antonio, se ne stava
vicino al padre, il notaio Fiornovelli. La giovane donna stringeva al petto il neonato Ferdinando
Carlo, mentre la figlia Caterina Teresa Clara, impaurita da quel disordine, le cingeva i fianchi. Le
guance della fanciullina, pallide di sonno, si rianimavano di un timido rossore alle prime note della
sinfonia in capo all’oratorio. I violini, imitando una fanfara di gusto tardo rinascimentale,
invitavano il pubblico a prendere posto tra le panche addobbate di fiori. Un ragazzetto intanto
sghignazzava indicando il suonatore di violone che, in ritardo, si inerpicava sulla ripida scaletta
della cantoria portando lo strumento in spalla. Tra lo stupore e il mormorio dei fedeli, quel sublime
sipario tessuto dall’orchestra si apriva sul Sepolcro, ai cui piedi la Vergine Maria attendeva di
intonare il suo compianto. Con quelle note svaniva il ricordo di quel giorno: ora la mente del
vecchio maestro, accompagnata dal lamentoso tetracordo discendente eseguito all’organo, andava
alla catabasi dei suoi amori.
Nell’estate del 1712 il padre lo aveva lasciato, solo, alla guida delle cappelle cittadine. Per curare
quella sua complessione calida e sanguinea, che tanto lo aveva tediato – spingendolo persino a
rifiutare la direzione della Real Cappella di Messina, per timore del clima siciliano, così poco
salubre per i suoi umori – Giovanni Battista aveva deciso di ritirarsi presso la sorella a Bergamo.
Presto, prendendo a noia le gite nei bei dintorni della città e la composizione di oziosi versi arcadici,
si era prodigato per ottenere il ruolo di maestro di cappella in S. Maria Maggiore. Non del tutto
appagato, desideroso di aver d’intorno qualche giovane interessato all’arte di fare le consonanze e le
dissonanze, aveva dato la sua disponibilità alla Pia Scuola Musicale della Congregazione di Carità. I
rapporti epistolari tra padre e figlio erano continuati regolarmente. Nelle lettere del padre le note di
pagamento e i resoconti della vita domestica erano intercalati dai lapidari commenti sulle nuove
composizioni date ai torchi da Pomatelli, premurosamente speditegli dal figlio. Il più delle volte
queste erano frettolosamente congedate dal maestro: «Le suddette muse hanno più fumo,
ch’arrosto!» Nel settembre 1716 lo scambio epistolare si interruppe improvvisamente. Pochi giorni
dopo giunse notizia a Paolo Antonio della malattia del padre. Preoccupato, il primo ottobre, aveva
spedito una lettera alla zia per sincerarsi della situazione e chiederle se fosse stato opportuno
imbarcarsi quanto prima per risalire il Po fino a Piacenza e poi l’Adda. La risposta si fece attendere.
Fino a quando, il 9 ottobre, gli fu recapitato un urgente dispaccio bollato dai Savi orobici:
«Illustrissimo e reverendissimo Paolo Antonio Bassani, si informa vostra signoria che nella Città di
Bergamo è morto all’improvviso Giovanni Batista Bassani Ferrarese, celebre Maestro di Cappella
dimorante in questa Città avendo lasciato in Ferrara vostra illustrissima, suo figlio, eccellente in
detto mestiere anch’esso». Bagnando di lacrime quelle parole, si chiedeva perché avesse preferito
attendere un cenno della zia anziché prendere l’iniziativa e raggiungere immediatamente il padre.
Con gli scudi guadagnati negli ultimi tempi avrebbe potuto, senza alcun danno per la famiglia,
allontanarsi per qualche tempo dai suoi incarichi. Per sdebitarsi di quel padre che gli aveva
preparato una vita agiata consegnandogli ruoli di tanto rilievo, angustiato dai sensi di colpa per quel
saluto disertato, si era chiuso per giorni e giorni nella piccola camera della musica, cercando di
comporre una messa funebre. Aveva prontamente contattato il marchese Gaetano Trotti, economo
dell’Accademia della Morte: si sarebbero fatte le esequie in musica nella piccola chiesa del
sodalizio. Ma il pentagramma rimase vuoto e presto tutti si dimenticarono di quella promessa. La
vita riprese il suo monotono corso scandita dai doveri religiosi, fino a quando un nuovo lutto colpì i
Bassani. Nel 1718 Ferdinando Carlo, di appena tredici anni, morì di vaiolo. Se Paolo Antonio,
almeno in apparenza, sembrò non accusare troppo il colpo, votandosi totalmente alla cura delle
accademie cittadine e alla carriera del figlio Costantino, l’accaduto segnò profondamente Isabella
Ursula. La donna, gettata in uno stato deplorevole, iniziò a trascinarsi di chiesa in chiesa per
affogare il dolore tra i Pater noster e le Ave Maria. Di tanto in tanto, come ridestata da quel torpore,
si allungava verso Porta d’Amore per raggiungere il monastero di Sant’Antonio in Polesine. Qui,
arrestandosi sulla soglia della chiesa esterna, chiudeva gli occhi per meglio ascoltare il canto dei
vespri. Quel sublime coro angelico, sapientemente diretto dalla figlia da dietro la grata della
clausura, portava ristoro ai poveri e rassegnati cuori lì radunati. «Non si poteva trovarle di
meglio?», si chiedeva. Volgeva poi le spalle a quella musica e, con gli occhi gonfi di lacrime
sussurrava «Avrebbe potuto essere madre…madre». Dal canto suo, Paolo Antonio non si rammaricava
affatto delle sorti di Caterina: fin dai tempi di Mazzaferrata era tradizione che le figlie
dei maestri di cappella ferraresi contribuissero alla gloriosa pratica musicale dei monasteri cittadini.
Perdipiù nel computo della dote spirituale erano messe a valore le attitudini musicali delle figlie
destinate allo stato monacale: tali attitudini erano germogliate in Caterina accostatasi alla tavola
musicale imbandita dal padre per Costantino. Di tanto in tanto le scriveva ancora qualche lettera. Le
risposte della giovane, colme di quelle minute attività pratiche imposte dalla vita monastica,
trovavano sempre epilogo in uno slancio di sommessa mortificazione: «se fossi levata dal mondo
poco o nulla importerebbe, perché a poco o nulla son buona, dove che nella persona di vostra
signoria, e signor Costantino, mio fratello, sarebbe tutto l’opposto per moltissime ragioni». Di
contro il padre, così poco avvezzo alle parole affettuose, portava la conversazione su quell’arte che
quasi inconsapevolmente le aveva trasmesso. «Come Ella sa» replicava Caterina con la sua
carezzevole voce, «alle mie occupazioni s’aggiunge l’insegnare il canto fermo a quattro giovinette,
e ordinare l’offizio del coro giorno per giorno: il che non m’è di poca fatica, per non aver
cognizione alcuna della lingua latina. È ben vero che questi esercizi mi sono di molto gusto, se io
non avessi anco necessità di lavorare». Una volta Paolo Antonio, spinto dalla nostalgia di quella
bambina che soleva vagabondare per la cantoria della Morte importunando il suonatore di liuto
intento ad accordare, le aveva fatto giungere uno copia di uno di quegli strumenti a otto cori usati al
tempo di Alfonso II. La giovane mai ringraziò il padre per quel dono, che presto divenne icona della
distanza incommensurabile tra padre e figlia. «Vorrei anco saper s’Ella si contentassi di far un
baratto con me, cioè ripigliarsi un chitarrone ch’Ella mi donò parecchi anni sono, e donarmi un
Breviario», aveva scritto Caterina nell’ultima sua missiva.
Gli scudi risparmiati dalla dote della figlia erano stati impiegati per la formazione di Costantino che,
fattosi ormai uomo, dimostrava la stessa vena creativa del nonno. Egli fu nominato organista
dell’Accademia della Morte per la festa di S. Apollinare del 1726. In tale occasione gli fu concessa
l’opportunità di eseguire, per la prima volta in pubblico, una sua composizione. Come ricordato in
un memoriale «fu stimata assai la suddetta composizione, che fece cantare il suddetto giorno, e
v’era tanta gente, che il giorno proprio della sua festa non v’è tanto concorso che in questa funzione
tanto di dame, come cavalieri, et altri virtuosi in tal materia, che lo stimarono un uomo virtuoso
tanto più che questo è giovine spiritoso, e mostrerà maggiormente la sua virtù come presto si sentirà
in altri luoghi». Nonostante fosse nata sotto i migliori auspici, la carriera di Costantino ebbe presto
una battuta d’arresto. Il 23 ottobre del 1727 i confratelli della Morte votarono il definitivo
allontanamento di Paolo Antonio e del figlio dai rispettivi ruoli di maestro e organista
dell’Accademia. I sodali imputarono la decisione alle ristrettezze economiche patite dalla
Confraternita: i musici di quella ormai decaduta Accademia andavano liquidati quanto prima per
fornire maggiore sussistenza alle carceri e all’ostello dei pellegrini, attività ritenute prioritarie. Il
ricorso presentato da Paolo Antonio all’autorità legatizia ebbe esito avverso. Così, già nel dicembre
di quell’anno, la famiglia Bassani abbandonava, oltre al prestigio di quella posizione, la piccola
abitazione collegata alla chiesa della Morte. In quelle tre camere nobili poste a solaio, Paolo
Antonio e Costantino erano nati e cresciuti all’ombra di Giovanni Battista. Appoggiati alla porticina
che conduceva alla cantoria, i due fanciulli lo avevano osservato rimproverare con bonarietà, per
poi elogiarli, i musici dell’Accademia che tanto ossequiosamente rispettavano il maestro. Presto i
due fanciulli, immersi nella luce che le sirene dei torcieri spandevano dal poggiolo della cantoria,
erano richiamati dalle madri: «Vieni che si raffredda! Altrimenti per oggi niente lezione di musica!»
Allora socchiudevano la porta, appena appena, affinché quel concerto di voci e strumenti potesse
accompagnare il loro desinare. Nella corsa verso la piccola cucina il ricordo sfuggiva e Paolo
Antonio tornava al leggio dell’organo di S. Girolamo. Lì, dove aveva debuttato come compositore
di oratori con il suo Morto redentore, avrebbe presto trovato dimora, al fianco del fratello
Ferdinando Carlo, Costantino. E lì, tra quelle pareti di rossi mattoni, Paolo Antonio desiderava
essere sepolto. Concluso il Lux Aeterna del «gran Bassani», estraeva dalle carte sparse al suolo quel
Libera me Domine che da ragazzo, timoroso del giudizio paterno, aveva presto nascosto e
dimenticato. Volgendosi al coro, con fierezza composta dava quel primo sincero attacco della sua
vita. La musica, uscendo dalla porta maggiore, si frangeva contro la muraglia di verdi pioppi. E la
flebile eco che ne sopravviveva presto svaniva tra le antiche e polverose vie nel pomeriggio ormai
tardo di quel 9 giugno 1730.

Carlo Bonomi, Nozze di Cana (1623-24), presbiterio della Chiesa di Santa Maria in Vado (Ferrara).