Marco Gulinelli, ‘trapezista’ per volare verso un sogno

Isabella Cattania

«Il trapezio è la metafora del salto nel vuoto che prima o poi nella vita affrontiamo tutti». Marco Gulinelli è così che Lei ha spiegato, nel corso di un’affollata presentazione, perché ha deciso di intitolare il Suo nuovo libro Il trapezista. Un salto, dunque, verso il «vuoto elettrizzante di un sogno tutto da vivere» quale è stato quello di diventare scrittore?

Il titolo è sempre un momento particolare, a volte si propone lui senza cercarlo. Ed è quello che è successo con questo mio romanzo: cercavo qualcosa che rendesse l’idea di quel futuro che avanza inesorabilmente e così, vuoi anche per l’amore incondizionato nei confronti del circo, la metafora del trapezio degli acrobati si è rivelata subito in modo naturale sposandosi con la struttura del racconto. Quel trapezio che ci viene incontro ogni volta che la vita ci propone cambiamenti, a volte dolorosi, porta il nostro nome. Così tra un trapezio e l’altro si deve affrontare il vuoto del salto ed è proprio in quella sospensione, un “non luogo”, che soli con noi stessi e le nostre paure, cresciamo. I salti si ripetono uno dopo l’altro, la vita intera è una ripetizione. Diventare scrittore! Non è tanto un problema di definizione di genere ma di più una questione d’essenza. La mia identità di essere umano non dipende dalla scrittura ma dai rapporti che ho con gli altri nella vita di tutti i giorni. Quando mi tuffo nelle parole e m’immergo nel romanzo, o racconto che sia, forse solo allora lo divento, ma non è uno statuto è più un’identità organica che cessa nel momento in cui risalgo in superficie. Ho un rispetto assoluto per la parola ed il foglio bianco, e non ho ancora compreso bene se quando scrivo riferisco l’emozione che sto provando o se l’emozione consista nel piacere di riferirla. Un po’ quello che succedeva ad Antonio Delfini, scrittore modenese che amo molto, secondo una definizione di Cesare Garboli.

Dopo La perizia, il Suo romanzo d’esordio pubblicato nel 2013, ecco dunque Il trapezista, edito dalla prestigiosa La nave di Teseo, già alla seconda ristampa a pochi mesi dall’uscita nelle librerie. Ora si sente scrittore?

Riprendo dalla risposta che ho appena dato: non credo allo statuto pubblico dello scrittore. Come ha scritto Paul Valery in Monsieur Teste «ogni genio comincia con la colpa che lo ha fatto conoscere». Naturalmente io non sono un genio e ancor meno mi sento tale, ma credo che in quella frase ci sia una verità che coincide con una sorta di colpa, un peccato originale che è il desiderio, non troppo nascosto, di essere conosciuti. Nel caso della scrittura, tra l’altro, un desiderio del tutto estraneo all’oggetto perché un romanzo eventualmente fa conoscere qualcun altro. Ecco, tener presente questo peccato originale permette di relativizzare la propria posizione e quando qualcuno si congratula con me perché il libro gli è piaciuto cerco sempre di tener distinto lo scrittore dalla persona che sono perché fuori dall’atto di scrivere smetto subito di sentirmi tale. Probabilmente ci sono scrittori che si sentono tali in ogni momento della loro vita, forse hanno un progetto estetico permanente: pensano solo a quello e vivono solo per quello. Importante per me è il libro non lo scrittore. La Nave di Teseo è un’opportunità importante e ringrazio Elisabetta Sgarbi e tutta la redazione della casa editrice. Elisabetta è una persona, oltreché preparata, di rara sensibilità nei confronti della cultura e dell’arte. Basta osservarla, in occasione della bellissima mostra della Collezione Cavallini Sgarbi allestita nel nostro Castello estense, muoversi nelle sale parlando con le persone in visita e con il personale di sala con grande affettuosità, a volte anche sopperendo alle guide stesse nell’illustrazione delle opere d’arte.

Il trapezista è diviso in due parti. Inizia con la narrazione in prima persona ed è una memoria, mentre successivamente la trama ‘salta’ nel presente. Quanto c’è di autobiografico in questa Sua opera ambientata in Emilia-Romagna e che si presenta in copertina con la straordinaria fotografia Lido di Volano di Luigi Ghirri?

Tutto il libro sottende le atmosfere del fotografo di Reggio Emilia, grande maestro della fotografia di paesaggio italiana e non solo. C’è il paesaggio emiliano-romagnolo, il senso di vaghezza e di mistero che si riflette nel nostro territorio, anch’esso destinato ad una lenta agonia, c’è la volontà ferrea che i nostri luoghi così come quelli di tutti siano sempre riconoscibili e non si perdano con lo sterminato pano- rama di cliché che si mescolano con la nostra vita: ipermercati, vetrine, luci, insegne, nomi di marche. Il nuovo ci assedia e dobbiamo almeno tentare di sottrarci al disincanto della modernità. A proposito di quanto autobiografico ci sia nel romanzo dico che nei personaggi si trovano le mie convinzioni e alcune esperienze vissute: in fondo si scrive di ciò che si sa ma sono tutte note ben travestite con le necessità del romanzo che da un certo punto in poi si impone su tutto perché scrivere è anche un gioco di fantasia.

Tra le pagine fa spesso capolino anche il ricordo del Suo amato nonno.

E qui potrei rispondere che siamo figli di un unico genitore ma di tanti padri. Mio nonno Antonio è stata una figura di riferimento che ancora vive in me, si tratta di una tonalità interiore che non mi abbandona mai. Tra i tanti ricordi ed insegnamenti mi ha istruito sul “senso dell’ozio”; sembra strano ma ritengo non lo sia per niente, lui intendeva la volontà ormai invadente di dover fare a tutti i costi, l’obbligo di avere prospettive a lungo termine, il senso del “dover essere” (io sono avvocato, scrittore, etc. etc). Ecco lui tutto il contrario, invece. Niente è più importante di se stessi nel momento in cui viviamo, senza prassi competitive solo per il gusto del vivere. Lui era un poeta senza saperlo, cosa che io non sarò mai perché invano cerco di esserlo. Mi ha insegnato che il valore delle cose non sta in qualcosa di speciale ma soprattutto risiede nelle pieghe del “niente di speciale”. Lui dava senso e passione alle cose più insensate: il volo di un calabrone, le tracce sulla sabbia delle onde, l’odore della cantina, il modo di fumare o di camminare delle persone.

«In questo romanzo – ha detto – ho voluto mettere precisione, sfruttando tutti e cinque i sensi». Cosa significa?

Significa la necessità di conoscere il più possibile ogni aspetto della realtà e cercare di tradurli nella scrittura, annotando tutti i giorni pezzi di storie, visioni, musiche, odori che aprono la memoria involontaria ad impressioni del tutto estemporanee orientate verso il nostro orecchio interno. Noi siamo dentro alla vita e questo è un fatto che è una grande avventura come sosteneva sempre Delfini.

«Vorrei fare un film da questo libro ed esserne il protagonista» ha auspicato l’attore Ivano Marescotti dopo averne letto in pubblico alcune pagine. Mi sembra un incoraggiamento a continuare…

Adoro Ivano Marescotti e detto da lui è probabile che ci sia qualcosa di vero perché nel romanzo Il trapezista ho pensato per immagini, cercando di tradurre i luoghi, gli odori, i movimenti, i colori, e forse ciò in qualche modo mi avvicina al ci- nema. Ma la realtà non è solo ciò che si vede e sono dovuto quindi passare più attraverso la visione che la vista; isolarmi e pensare con precisione, leggere e rileggere i passaggi, i capitoli. Ho poi capito che vi è una sostanziale differenza tra scrittura e cinema: il cinema invecchia più in fretta, basti pensare al cinema muto. Sono cresciuto guardando i film di Antonioni, Truffaut, Wenders e ultimo ma non ultimo Pupi Avati. La carissima Silvia Bottoni, direttrice della scuola di danza Jazz Studio Dance di Ferrara, ha studiato una trasposizione teatrale del romanzo al Comunale. Chissà che non sia un piccolo passo verso il cinema visto che Pupi Avati ha letto il libro e mi ha scritto una lettera molto gratificante. In fondo, imbarcarsi in un sogno non è la vita stessa?