I GIORNI DI BARABBA

L’aria era satura del profumo acre di incenso miscelato all’odore pastoso della cera bollente che colava in rigagnoli d’avorio a condensarsi sopra i candelabri. Una soffusa musica d’organo registrata si disperdeva lungo le navate della chiesa, e come l’alito di un fantasma non aveva la forza di smuovere la polvere dalle statue o dalle cassette per le offerte.

Rinchiuso nel guscio ligneo del confessionale, don Guido ebbe un sussulto al cigolio improvviso. Non gli era parso di udire passi in avvicinamento, ma evidentemente era troppo assorto nella lettura del breviario. Qualcuno si era inginocchiato. Qualcuno voleva essere mondato dai propri peccati la vigilia di Pasqua. Bene.

Posò il libretto sulle ginocchia e sollevò il gancio per aprire la finestrella che lo separava dal penitente in attesa. Il volto che comparve dall’altra parte, comunque, era irriconoscibile per via della grata in rame e dell’ombra che il cappello dipingeva a nasconderne i lineamenti.

Don Guido si schiarì la gola: «Dimmi, figliolo.»

«Padre, io voglio morire, ma non posso. Solo lei mi può aiutare…»

La voce dello sconosciuto era roca, infinitamente stanca.

Don Guido percepì il proprio cuore perdere un colpo. Quanta sofferenza, quanto sconforto aveva conosciuto, in oltre trent’anni di sacerdozio… E quanto gli era stato difficile, soprattutto in gioventù, non lasciarsi contagiare da tutto il male, da tutto il dolore che con parole e lacrime la gente gli aveva riversato sull’anima alla ricerca di conforto… E ora, eccolo di nuovo davanti all’ennesimo caso di follia, di farneticazioni spirituali, di disperazione esistenziale. Capitava spesso, il Venerdì o il Sabato Santo.

«Figliolo, perché dici questo? Lo sai che cercare la morte è peccato. Il nostro Signore…»

«Il nostro Signore non c’era, quando l’ho fatto!» Il tono del pover’uomo nell’ombra era sommesso, eppure intriso di un astio smisurato. «Lei lo sa, padre, cosa accade a chi si toglie la vita durante i Giorni di Barabba?»

Don Guido si ritrovò a rabbrividire, nonostante sentisse di essere sudato sotto la tonaca. I Giorni di Barabba… Taluni chiamavano in quel modo bizzarro il periodo fra la morte e la resurrezione di Cristo. E c’era quella stupidissima credenza…

«Mi sono tolto la vita nella notte del Venerdì Santo, padre. Mi sono sparato, per mille ragioni che ormai non interessano più. Ora la questione è un’altra. Non ci si può uccidere durante i Giorni di Barabba, lei lo sa, perchè il suicidio è un peccato, ma Cristo non c’è, è sepolto, e allora non ti vede neppure, non si accorge di te, e tu non muori!…»

Il sacerdote ascoltò lo sproloquio a occhi chiusi, bisbigliando una preghiera. Considerò, di sfuggita, quanto possa essere misera la mente dell’uomo. Un dono così grande, pronto a trasformarsi nella peggiore delle condanne. Decise di replicare nel suo tono più incisivo.

«Figliolo, ascolta. Calmati. Tu non sei morto. Dici di esserti sparato ieri notte, ma forse hai solo pensato di farlo. Forse sei stato tentato, per disperazione, ma la Sua mano ti ha fermato, anche se ancora non te ne rendi conto. Ora sei qui, cerchi conforto, e stai parlando con Lui attraverso di me…»

Lo sconosciuto si lasciò sfuggire un sibilo che voleva essere una risatina sprezzante. Poi grugnì:

«Padre, non mi faccia perdere tempo con le sue chiacchiere! Solo un’assoluzione durante i Giorni di Barabba mi può liberare! Mi assolva, la prego! Non mi faccia peccare ancora!»

Le ultime parole furono accompagnate dall’esibizione, attraverso i forellini della piccola grata, di un oggetto metallico che baluginò nella tenebra. La punta di un coltello grattò con insistenza contro il rame.

«Mi assolva!…»

Don Guido si fece un rapidissimo segno di croce, tergendosi nel contempo il sudore dalla fronte con un lembo della stola. Sussurrò un concitato “Ego te absolvo…” serrando forte le palpebre, mentre la saliva, asciugandosi, gli aveva già reso la lingua simile a un brandello di spugna secca. E nel giro di pochi secondi, quand’ebbe terminato la recita della formula assolutoria, un sordo tramestio lo indusse ad alzare nuovamente lo sguardo in direzione della finestrella.

L’uomo non c’era più. O meglio, non si vedeva più la sagoma della sua testa.

Abbandonò il sedile imbottito, precipitandosi fuori dal confessionale, e lanciò uno sguardo atterrito all’inginocchiatoio occupato dal penitente.

L’uomo era là, ora immobile, disteso in maniera scomposta, misero ammasso di cenci. Una mano ossuta stringeva ancora l’inutile coltello. Il bavero del cappotto si era abbassato e il cappello era scivolato, rivelando chiaramente alla luce delle candele le devastate fattezze del disgraziato.

La pelle, livida, era tirata a ricoprire il teschio come un guanto di lattice, dentro le cui orbite due occhi spalancati fissavano ciechi il cielo notturno, oltre il tetto della chiesa. Tra i radi ciuffi di ragnatele bianche che un tempo erano stati capelli un piccolo foro scuro accompagnava senza garbo lo sguardo dell’osservatore all’interno della tempia. E per quante preghiere don Guido conoscesse, nessuna lo avrebbe mai aiutato a capire cosa fosse accaduto, né tantomeno a immaginare che quel relitto d’uomo si fosse davvero sparato la notte del Venerdì Santo, sì… ma di un anno prima.

[Prima pubblicazione: Mystero, marzo 2002]