“Vacanze di Natale in convento”di Salvatore Dellisanti
Vacanze di Natale in convento
di Salvatore Dellisanti
Oggi sarebbe quasi normale, forse un po’ eccentrico ma da non fare scalpore; si direbbe, di chi decide di trascorre qualche giorno in un convento, che “ha bisogno di allontanarsi dallo stress di tutti i giorni e ritrovare la tranquillità interiore persa a causa della vita moderna”.
Ma alla fine degli anni ’50 nessuno pensava allo stress, parola quasi sconosciuta. Si era in pieno boom economico, c’era una gran voglia di fare per lasciarsi alle spalle la miseria e la fame patita durante la guerra oltre che la necessità di ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto.
All’epoca avevo circa dieci anni ed i miei fratelli rispettivamente 4 e 5 anni di meno. Fu allora che vivemmo questa strana esperienza in convento, strana per me che avevo rifiutato l’asilo, dalle suore, quando avevo 3-4 anni.
La famiglia di mio padre poteva considerarsi sufficientemente agiata anche se la prematura morte del nonno avvocato aveva costretto la nonna ed i cinque figli a qualche economia per far durare il gruzzolo di risparmi che il nonno aveva lasciato. Mio padre, alla morte del nonno, aveva solo 17 anni e i sacrifici fatti dalla famiglia gli permisero di laurearsi in medicina per poi dare il suo sostegno economico.
Una famiglia abbastanza numerosa quella dei nonni, abbastanza normale a quei tempi: cinque ragazzini con 14 anni differenza tra il più grande ed il più piccolo, mio padre, più “Lucrezia”, una coetanea della nonna, vissuta in casa nostra per oltre 80 anni da quando, a soli 5 anni, aveva seguito la mamma come “donna di servizio”; alla morte della mamma, ancora in giovane età, ne aveva preso il posto ed era rimasta in casa dei nonni: ormai faceva parte della famiglia.
La cito perché ha avuto un ruolo molto importante nel ménage familiare dopo la morte del nonno: era lei che amministrava la casa, faceva la spesa e cucinava; è stata lei che, all’indomani della morte del nonno, aveva strigliato tutti, compresa la nonna, dicendo che da quel momento in avanti, in mancanza di altri redditi, si doveva fare con ciò che si aveva: e così si è fatto, permettendo a mio padre di frequentare l’università.
La ricordo sempre uguale, aveva circa 70 anni quando sono nato; con il suo vestito lungo fino alla caviglia e l’immancabile grembiule per i lavori di casa, la faccia tonda con i capelli raccolti a chignon sulla nuca e un po’ di peli sulla faccia e sotto il naso, tanto che, da bambino, non riuscivo a definirne il sesso; certamente la sua energia ed il suo aspetto mi facevano propendere per un “uomo”, ma l’abbigliamento smentiva questa mia ipotesi.
La nostra famiglia era molto religiosa, messa tutti i giorni e comunione la domenica per non parlare dei rosari che sentivo recitare ma che non mi hanno mai coinvolto; non posso dire che tutto questo fervore cristiano mi abbia allontanato dalla religione ma certamente, con il passare degli anni, ha influito sul mio modo di vivere la “fede cristiana” e tutte le sue esteriorità.
La profonda religiosità che si respirava in casa ha certamente influito sulle scelte di vita di due delle mie zie. La più anziana ha preso i voti diventando “Suor Alba”, da noi familiarmente chiamata “zia suora”, l’altra, che pure avrebbe voluto seguire la sorella nella vita monastica, si è limitata a rinunciare a prendere marito per dedicarsi alle così dette opere di bene: membro attivo della Azione Cattolica, vita di chiesa, insomma una sorta di “suora laica”.
Con il passare degli anni e del progredire dell’attività professionale di mio padre le possibilità economiche della famiglia migliorarono decisamente: arrivò la macchina, una 500 Belvedere appena sufficiente a contenere mamma ed i miei fratelli. Si pensava anche all’acquisto di una casa nuova, dotata dei confort più moderni: frigorifero, lavatrice, impianto a gas diretto e, soprattutto il riscaldamento centralizzato. Nella vecchia casa della nonna si andava avanti con stufette elettriche che scaldavano solo chi vi era vicino e borse d’acqua calda per non trovare il letto gelido. L’inverno del ’56 era poi stato particolarmente freddo e con abbondanti nevicate, insolite alle nostre latitudini, che però ci avevano dato la possibilità di divertirci in giochi nuovi come il lancio di palle di neve e il fare pupazzi.
Le migliorate condizioni economiche fecero nascere nei miei genitori la voglia di fare dei viaggi di piacere; fino al allora gli unici viaggi si erano limitati a Roma per fare visita ai nonni materni; abitavamo in una città costiera, quindi non si sentiva la necessità di fare la “villeggiatura al mare”: il mare ce l’avevamo sotto casa.
Fu così che per un capodanno papà e mamma decisero di andare in Costa Azzurra, a Nizza. Noi bambini avremmo dovuto rimanere a casa con la nonna e Lucrezia, entrambe ormai ottantenni, e la zia signorina che, con tutti i suoi impegni in opere di bene, la si vedeva solo a pranzo ed a cena.
Venne quindi l’idea di affidarci alla zia suora che era in convento a Lecce e che in occasione delle festività pasquali e natalizie veniva a trovare l’anziana madre e noi tutti.
Ottenuto il consenso della Madre Superiora, dopo Natale si partì per Lecce. Per noi bambini era eccitante fare un viaggio in treno ed andare a vivere una esperienza così diversa in una città che, oltretutto, non conoscevamo anche se partimmo con un po’ di dispiacere per il dover lasciare a casa i nuovi giocattoli appena portatici da Gesù Bambino; Babbo Natale era troppo laico per poter essere lui il distributore di giocattoli natalizi, quindi Gesù Bambino era più consono alla religiosità della famiglia.
Il primo impatto con il convento, che in realtà era un collegio per ragazze adolescenti o poco più, fu stupefacente per noi. Era un edificio molto grande con corridoi larghi e lunghissimi, aule per le lezioni, un cortile, quasi un chiostro, sufficientemente vasto da poterci scorrazzare; c’era poi il refettorio per le allieve del collegio, separato da quello delle suore che, comunque, sorvegliavano e mantenevano l’ordine ed il silenzio quasi come fossero dei secondini. Ancora più sorprendenti per noi furono gli alloggi delle collegiali: stanzoni enormi, lunghi come corridoi, con decine di letti su entrambe le pareti. Alle due estremità vi erano due letti differenti dagli altri, dotati di un baldacchino che sorreggeva una tenda per garantire un po’ di privacy alle due suore quando svestivano l’abito monacale per indossare la camicia da notte: erano incaricate di sorvegliare le ragazze durante la notte e far osservare ordine e silenzio.
Le collegiali erano tornate a casa per le vacanze di Natale; la cosa però non ci disturbava, anzi. Eravamo troppo piccoli perché le ragazze cominciassero a interessarci ed animare i nostri sogni infantili; non condividendo la nostra passione per il calcio, la corsa e lo sport in generale, vivevano, secondo il nostro sentire fanciullesco, in un mondo abitato solo da bambole.
Ci furono così assegnati tre lettini vicini a quello con baldacchino che era occupato dalla zia suora.
Le nostre giornate trascorsero serene tra pingpong, calciobalilla e corse nei lunghissimi corridoi, fortunatamente sopportati dalle suore più anziane e meno pazienti. Talvolta facevamo una passeggiata in centro, sempre accompagnati, o trascorrevamo qualche ora nella stanzetta che la zia aveva a disposizione; c’era un pianoforte col quale insegnava musica alle ragazze e, in quelle giornate invernali ci faceva ascoltare qualche pezzo di musica, rigorosamente classica o natalizia: le canzonette non facevano parte del suo repertorio.
Si giunse alla fine del nostro soggiorno in convento e si ritornò a casa. I nostri genitori erano ritornati dalla Costa Azzurra e, finite le vacanze di Natale, si doveva ritornare a scuola.
Partimmo con due sentimenti contrastanti nel cuore: da una parte la tristezza per la fine delle vacanze, dall’altra la gioia di rivedere i genitori, la nonna e i compagni di gioco. Ma soprattutto restò in me, forse meno nei miei fratelli più piccoli, la consapevolezza di aver vissuto un’esperienza unica, anche se non esaltante, ma che comunque mi aveva arricchito interiormente.
A distanza di oltre cinquant’anni, ormai pensionato e libero da preoccupazioni e responsabilità di lavoro, ho avuto più tempo da dedicare ai ricordi più lontani. Mi sono tornate in mente le vacanze in convento e, con l’aiuto di internet, ne ho ricercato le tracce; ho trovato un numero di telefono del convento ed ho chiamato, presentandomi come un nipote di una loro consorella che aveva vissuto in quel convento molti anni prima. Con mio rammarico ho appreso che il convento/collegio delle mie vacanze era ormai abbandonato; le suore, che si erano trasferite in un edificio più piccolo e sufficiente per le loro esigenze, stavano pensando di mettere in vendita il vecchio Istituto. Sono rimasto deluso pensando a quella vacanza in convento ed al gran numero di adolescenti che si erano succedute nei suoi circa 100 anni di attività; tutto ha una fine ma i ricordi restano vivi per sempre.
Salvatore Dellisanti
(fotografie di Salvatore Dellisanti)