VIGILIA D’OGNISSANTI

«… perchè questa notte, caro Daniele, è la vigilia d’Ognissanti: una notte magica, una notte in cui tutto, sai, può accadere…»

La nonna parlava con la sua voce dolce, modulata, perfetta per raccontare fiabe e far addormentare i bambini. Seduta sul bordo del letto di Daniele, impegnata a cucire con sapienza alla luce della luna quasi piena che si affacciava con vigore alla finestra della stanzetta, la donna intratteneva il nipotino, infilato sotto una trapunta variopinta.

Di quando in quando, come tante manine nere, le ombre dei magri rami di platani e tigli accarezzavano timidamente il volto del bambino.

«Si raccontano tante leggende», continuò la nonna, manovrando con perizia ago e filo, «tante fole… Vuoi sentirne una? Be’, si dice, per esempio, che chi muore di morte violenta proprio questa notte è destinato, suo malgrado, a ritornare, tutti gli anni, la stessa notte, per far del male alle persone che ama… È una storia terribile, hai ragione. Ma lo sono un po’ tutte le favole, non è vero?…»

Daniele mugolò, ormai prossimo a scivolare lungo le morbide pendici dell’incoscienza. La nonna sospirò, il sorriso rugoso offuscato da una patina di malinconia. Interruppe il proprio lavoro. Gli occhi le bruciavano, arrossati e umidi.

Spostò lo sguardo verso la finestra, là dove la notte pareva animata da una vita intima, segreta. Sembravano agitarsi ombre più dense, là fuori; ma naturalmente era solo un effetto dovuto alla suggestione del momento.

La donna si voltò poi a fissare la porta della cameretta. Qualcuno avrebbe potuto aprirla, da un momento all’altro. Qualcuno avrebbe potuto entrare…

E mentre ritornava con la memoria a ciò che era accaduto il 31 ottobre dell’anno precedente, qualcuno, puntualmente, arrivò.

La porta cominciò ad aprirsi, piano piano, in modo quasi esasperante, finché un volto di donna si stagliò nello spazio che si andava allargando.

La nonna fissò con sgomento la madre di Daniele, sua figlia, sollevando le labbra a scoprire i denti. Le due rimasero pietrificate per un frammento di eternità, gli occhi dell’una immersi in profondità in quelli dell’altra.

«Perdonami», le sussurrò roca l’anziana signora, conficcando con stizza l’ago nel cuscino, accanto alla testa del bambino. «Non è colpa mia, Anna. Lo sai come vanno, queste cose. È colpa di questa notte maledetta…»

Detto ciò, la vecchia reclinò il collo da un lato, lasciandolo ciondolare nella stessa innaturale angolazione che aveva assunto esattamente un anno prima, quando se l’era spezzato cadendo dalle scale. Quindi emise un lungo, agghiacciante sibilo, mentre il suo corpo tozzo si accartocciava su sé stesso come carta davanti al fuoco. Nel giro di pochi secondi, poi, la sua fisionomia si confuse in una voluta di fumo grigio e rossastro, che si allontanò fluttuando dal letto per raggiungere la finestra, e lì si assottigliò, spettrale tentacolo sfilacciato.

«Perdonami», ripeté in un rantolo appena udibile, un ansito tormentato che si avvinghiò da quel momento, e per sempre, al cervello di Anna. «Perdonami per ciò che sono diventata…»

Guadagnando una fessura, infine, l’osceno simulacro dell’anziana donna morta si lasciò scomparire fra i lamenti oscuri della notte.

Anna – che era entrata di soppiatto solo per controllare se il bambino stesse bene, e che aveva invece incontrato un Orrore smisurato, troppo vasto per essere sostenuto – si portò le mani al petto, la bocca spalancata in un grido che non trovava il coraggio di abbandonarle il cuore.

Ma finalmente il grido venne, insopprimibile, folle, disumano, non appena riuscì a distogliere lo sguardo dalla finestra per posarlo sul figlio, nel letto.

Daniele mugolava, dibattendosi debolmente sotto la trapunta, come in preda alla febbre. Accanto al suo viso dai lineamenti contratti, affondato nel cuscino stava l’ago; dalla sua cruna, un filo di lana nera disegnava nella penombra un sanguinoso intarsio che gli sfilava serpentino sugli occhi e sulla bocca. Palpebre e labbra erano serrate, cucite con maestria da mani morte che mai e poi mai avrebbero voluto compiere un simile scempio.

Ma l’avevano fatto. E, molto probabilmente, lo avrebbero fatto ancora.

 

[Prima pubblicazione: Horror n°3/2003]