IL PALLONCINO

Il sole brillava nel cielo, ma l’aria era fredda. Le automobili brontolavano, lente e nervose, per le vie della città, tossendo fumi e polvere che la brezza soffiava con noncuranza fra i capelli della gente. Giacche, bastoni da passeggio, borsette, sigari, cani al guinzaglio, giornali sotto braccio, vaghi cenni con il capo attraversavano le strade, mentre veli di pensieri si aggrovigliavano sotto cappelli grigi o chiome ossigenate. Di quando in quando un autobus levava uno stanco ruggito, stizzosa protesta sputata sull’asfalto, poi subito la sua voce si smarriva fra i sospiri rugginosi di motori e bronchi impolverati.

Figure mute gesticolavano dietro le vetrine dei negozi, frugando con attenzione lungo scaffali gravidi di scatole e barattoli; altre sfioravano i muri dei palazzi con le mani affondate nelle tasche, e brandelli di manifesti agonizzanti sui mattoni si avvinghiavano ai loro cappotti per rallentarne, almeno un poco, l’inarrestabile vagabondare; altre ancora attendevano immobili che il semaforo concedesse loro di attraversare una strada, e ammassate a piccoli gruppi, ai due lati opposti, si fissavano con occhi spenti, un po’ arrossati, quasi cercassero – ma senza forza – di lanciarsi domande, messaggi, funi di salvataggio che le auto tranciavano inesorabilmente. Ma quando il pedone sul semaforo si faceva verde, allora gli occhi si abbassavano, e i corpi irrigiditi dal freddo e dall’indifferenza si incrociavano in un soffio di tessuti fruscianti e colpi di tosse, allontanandosi poi per sempre, senza una parola.

Accadde nel parco, e nessuno se ne accorse.

Il bambino aveva corso, e riso, fino a quel momento, libero e vivo come nessun altro al mondo. Mai avrebbe immaginato che bastasse così poco per perdere tutto.

Le piccole dita avevano allentato la presa un attimo, un attimo soltanto, e il filo era sgusciato via, deciso, a seguire il palloncino rosso che ora fuggiva irreparabilmente dalla manina tesa. Il bambino si immobilizzò, gli occhi puntati verso l’alto e la bocca spalancata per la sorpresa.

Il palloncino si strofinò contro le fronde di un albero, poi si rigirò per liberarsi dalla debole presa di rami e foglie e riprese la sua fuga verso l’alto. Per un istante parve che il filo stesse per impigliarsi a un sottile cavo teso fra due palazzi, ma con un agile scarto il palloncino eluse l’ostacolo e ben presto divenne un piccolo punto rosso in viaggio verso il sole.

Il bambino non si mosse. Non gli riuscì di fare altro che continuare a fissare il cielo, con occhi sgranati che cominciavano a velarsi di lacrime.

Il primo ad accorgersi di lui fu un anziano signore che se ne stava seduto su di una panchina poco distante. Lo vide, e seguendo il suo sguardo anch’egli alzò il capo, cercando di scoprire cosa ci fosse da osservare con tanta intensità. Naturalmente non poté distinguere alcunché, pure schermandosi gli occhi con le mani per proteggerli dalla luce. Il palloncino non era ormai più visibile, ma l’uomo non riabbassò il capo. Rimase invece così, come il bambino, a guardare il cielo. E un ragazzo che passava lungo il vialetto ghiaiato del parco, vedendoli, d’istinto fece altrettanto: rallentò gradualmente il passo, poi si immobilizzò, fissando attonito il cielo sopra di sé.

La brezza, che fino a poco prima aveva bisbigliato i suoi lamenti fra i rami scintillanti di verde e i giornali vecchi stropicciati sui marciapiedi, ora pareva essersi stancata di girovagare senza meta, accasciandosi come un lenzuolo tremulo sopra la città. In tutto il parco non si udiva più il fischio di un uccello, né uno sbatter d’ali.

Bastarono pochi minuti, un alito di tempo, e la desolante rovina non incontrò più argini. A una a una, tutte le persone che formicolavano per strade e vicoli si fermarono, inghiottendo dolorosi sospiri senza nome, e sollevarono gli sguardi al cielo, oltre le grondaie che arrugginivano in bilico sui tetti, oltre le nuvole inchiodate all’aria immobile.

Anche le auto, tutte, rallentarono a poco a poco le loro corse, finché si ritrovarono a naufragare come zattere lungo morti fiumi d’asfalto. Un autista scese dalla propria vettura, e lo stesso fece quello fermo dietro di lui, e così pure un altro, e un altro ancora. Si guardarono, smarriti, gli uni gli altri, senza una domanda, senza una parola. E non c’era bisogno di parlare: ciascuno, d’improvviso, sentiva la voce della propria anima evocare alla coscienza il fantasma da cui tutti – anche senza saperlo – stavano fuggendo. I loro occhi si incrociarono in un lampo, poi si levarono al cielo e là rimasero conficcati. Così le strade divennero grovigli grigi disseminati di automobili, e autobus vuoti, e biciclette e motorini lasciati cadere ovunque, senza cura.

Le persone che si trovavano nelle proprie case, o nei negozi, o nelle chiese, uscirono con volti dolenti, oppure si affacciarono alle finestre dimenticando ogni attività divenuta improvvisamente futile, per guardare il cielo. Nessuno poté resistere. Ogni coscienza si spalancò, dissotterrando la triste consapevolezza che vi era tenuta sepolta con tante precauzioni, e presto tutti gli abitanti della città si ritrovarono a fissare verso l’alto, i cuori colmi d’angoscia, nel più assoluto silenzio.

Ma l’onda non si arrestò, e invase la campagna tutt’attorno, poi raggiunse altri paesi, altre città. Ovunque, al suo passaggio, la gente si abbandonava, smarrita, alzando il capo, in attesa di qualcosa che non avrebbe mai voluto cercare per il terrore di non trovare. E i loro sguardi non erano affatto vuoti, o spenti, come quelli degli automi, ma brillavano invece di una tristezza profonda, nuova eppure antica quanto il mondo. L’onda attraversò fiumi, e monti, e deserti, e oceani, fintanto che miliardi di occhi urlarono muti il loro dolore contro un cielo sempre più nero.

La terra continuava a girare, impassibile, sfera mostruosa indifferente a tutti i suoi viaggiatori ormai esausti del viaggio, ormai irrimediabilmente stanchi di quell’immensa beffa trottolante su sé stessa, attorno a una stella, attorno all’universo, attorno al nulla.

Poi, finalmente, un cuore ebbe il coraggio di gridare. Il bambino nel parco si abbandonò a un pianto inconsolabile troppo a lungo trattenuto, un pianto che volò a inseguire quel palloncino rosso perduto per sempre, voce liberatoria e inutile di tutte quelle gole inaridite dallo sconforto. E quel pianto, dapprima sommesso, si fece sempre più forte, sempre più disperato, innalzandosi come un’immensa colomba nera, trafiggendo stelle e pianeti, attraversando le galassie, perdendosi nell’infinito, implorando una risposta che non fosse sempre, e soltanto, il silenzio.

 

[Prima pubblicazione: La Loza, apr. 1990]