Parlare per ascoltare: un ricordo di Franco Loi

Parlare per ascoltare: un ricordo di Franco Loi

di Giuseppe Ferrara

 

Uno dei compiti che la vita assegna ai poeti è quello di scoprire, attraverso i propri pensieri e le proprie emozioni, che cosa sia in fondo la poesia. Di solito è grazie ai loro versi, dunque con la poesia stessa, che essi rivelano tale scoperta.

Franco Loi, scomparso nei primi giorni di quest’anno all’età di 90 anni, è stato uno di quei poeti che ha assolto questo compito nel modo più lirico, intimo, passionale e civile insieme. Lo stesso uso del dialetto milanese era in fondo dettato da questo compito: parlare per ascoltare, tenere cioè la vita nella poesia e la poesia nella vita.

Mescolando elementi alti e bassi, colti e popolari, reali e inventati, Loi esaudiva il desiderio di una lingua fraterna che gli permetteva l’appartenenza ad una comunità più autentica con la quale dialogare e potere così davvero parlare e dunque scoprire.

Lui stesso in varie interviste racconta questa personale epifania del ritorno al dialetto: «Mi è accaduto che volendo parlare di due personaggi (l’uno era un soldato, l’altro un impiccato che avevo visto durante la guerra), ho pensato che non potevo parlare di loro, o farli parlare in italiano. Dovevo farli parlare nella loro lingua che era il milanese. I primi versi che ho scritto sono proprio il ricordo di questo impiccato… Questa “lingua” mi possedeva, faceva uscire da me una musica, il ritmo dei suoni. Non scrivevo quello che avevo in testa, ma quello che mi veniva fuori… La poesia si faceva non ero io che la facevo». [Da “La promessa della notte” di R. Minore, Donzelli Editore, 2011]

Franco Loi era nato a Genova il 21 Gennaio 1930, ma già nel 1937 si trasferisce con la famiglia a Milano dove è cresciuto e ha vissuto per tutta la sua vita. Dopo aver lavorato come ceramista, operaio e per diversi anni nell’ufficio stampa della Mondadori, dagli anni ’80 decise di dedicarsi completamente alla scrittura. I suoi testi quindi hanno “traghettato” gli ultimi 70 anni della storia italiana fino ai giorni nostri: la guerra, le retate, le fucilazioni dei partigiani, il dopoguerra, il boom economico, le brigate rosse, gli anni dell’edonismo e quelli di Tangentopoli.

«Non ricordo periodi della mia vita» diceva «che non siano stati intrecciati allo scrivere… Si scrive perché qualcosa d’esterno ti muove. E questa azione permette di conoscersi meglio. Questa estraneità della poesia ad un progetto, ad una trama prestabilita la rende espressione di qualcosa che non è il poeta. È il momento di un contatto con l’Ignoto, con il Mistero, con Dio».

Ci sono un’infinità di equivoci intorno a cosa sia la poesia. Loi è stato anche per questo un’inequivocabile maestro. La poesia, diceva, non è andare a capo, fare una riga corta o usare parole che in qualche modo finiscono con un assonanza o, peggio, contarle le parole, le loro sillabe … «se la poesia fosse questo sarebbe sufficiente fare una cattedra di poesia e sfornare poeti allo stesso modo in cui si sfornano ingegneri».

La poesia è “solo” lo stupore che il poeta prova di fronte al proprio stupore.

Ecco perché i Greci chiamavano la poesia «fare» perché è proprio un operare su se stessi al modo degli alchimisti: il continuo mescolare modifica le sostanze e nello stesso tempo trasforma colui che «fa». Scrivere è insieme conoscere e conoscersi perché come ci spiega oggi la biosemiotica la vita è linguaggio, nel senso che l’uomo emerge dal linguaggio perché sono le sue stesse strutture neurologiche, le sue stesse emozioni ad essere formate selettivamente dal linguaggio.

Dunque la parola mescolandosi in noi e con noi, scioglie le incrostazioni di varia natura e agevola il rapporto tra la coscienza della propria individualità e una memoria di specie inconscia. In questo senso il dialetto ha consentito a Loi di comporre la sua “alchimia” tra lirismo, intimità e passione civile e condurre alle sue (e, grazie a lui, nostre) scoperte.

La lingua di Loi tornò ad essere dialetto perché dopo le delusioni della militanza politica, il fragore delle trasformazioni sociali, civili e morali, la vita stessa era tornata ad essere parola aperta ad un senso più ampio e a questo compito il poeta fu chiamato.

Anche per questo nella poesia di Loi si avverte il contatto con l’Ignoto, il Mistero, Dio: solo ammettendo che ci sia qualcosa di inconoscibile si può avere coscienza di se stessi e parlarne, per ascoltare, lo stupore.

 

Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle

Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle,

no per il freddo, no per la paura,

no del dolore, del rallegrarsi o della speranza,

ma di quel niente che passa per i cieli

e fiata sulla terra che ringrazia…

Forse è stato come trema il cuore,

a te, quando nella notte va via la luna,

o viene mattina e par che il chiaro smuoia

ed è la vita che ritorna vita…

Forse è stato come si trema insieme,

così, senza saperlo, come Dio vuole…

 

(F. Loi da Lünn, Edizioni Il Ponte, 1982)