Sorrisi nei rettangoli

Sorrisi nei rettangoli

Pensavano tutti che fossi uno come gli altri, anzi nessuno ci pensava: tutti davano per scontato che ci fossi e che apparissi proprio così.

Il cielo non prometteva pioggia, la temperatura era mite per il periodo, le persone si muovevano nel caos del traffico mattutino. Nello spogliatoio della piscina il vociare di donne frenetiche, che controllavano l’orologio del cellulare mentre si asciugavano i capelli, raccontava di una mattina qualunque in cui il lavoro le aspettava.

Ma io non ero uno dei tanti, io non ero uno qualunque, ma ancora nessuno lo sapeva.

Il vociare attivo dei bambini regnava nella classe mentre uno di loro alla lavagna spiegava la lezione preparata sulle frazioni ai compagni. Lei fiera seduta in un banco tra i suoi studenti li guardava e pensava a quanto fossero belle quelle parole matematiche che uscivano dalla loro bocca così calde e ragionate in confronto alla rigida freddezza delle definizioni scritte sul loro libro.

Il suono della campanella, che annunciava l’intervallo, sembrava uguale a quella di tutte le altre mattine: ma io ero diverso e lei non sapeva che quel suono le sarebbe rimasto nelle orecchie e nel cervello per molti mesi. Io ero unico, ero l’ultimo, ma ovviamente non potevo dare un preavviso. Il rumore dei succhi di frutta, bevuti sorseggiando dalle cannucce, si univa a quello delle carte che liberavano panini, pizzette, biscotti consumati un po’ in velocità per poi svolgere l’attività scelta per quel momento ricreativo. La pallina che entrava nella porta del calcino faceva esultare alcuni e creava piccole delusioni in altri, il vociare di chi disegnava in compagnia si univa a quello di chi si dilettava in giochi di società. Niente sembrava presagire che fossi l’ultimo, del resto il pericolo era invisibile a tutti anche a me. Visibili invece furono invece i sorrisi che si scambiarono in quell’aula alla consueta frase del venerdì «Ciao quinta, vado in terza!»

Cambiò tutto, ma non quella frase che lei non smise mai di usare neanche quando ferma nella stanza della sua casa li salutava nello stesso modo ogni venerdì, e vedeva i loro sorrisi chiusi in un rettangolo.

Anche in terza tutto sembrava procedere come se io fossi uno dei tanti.

Qualcuno l’accolse con un abbraccio tanto bello quanto inaspettato, qualcuno con un sorriso e lei nei mesi successivi si arrampicò su sentieri impervi e mai praticati che la condussero ad apprendere un nuovo modo di fare il suo lavoro, traendo forza dal ricordo di quei momenti. Le palle volteggiavano in aria pizzicate dai polpastrelli delle dita mentre le ginocchia si flettevano per migliorare il palleggio a coppie. Le palle rimbalzavano a terra dopo essere state colpite da una mano aperta e tesa e a turno qualcuno si affrettava a riprenderle.

«Maestra, fai l’ultimo palleggio con me?»

Quella voce bambina lei la ricordò come un presagio nei mesi seguenti. Fu l’ultima volta che vide quella palestra e quei bimbi giocare tutti insieme per quell’anno scolastico. Poi si misero in fila e mentre camminavano verso l’aula per svolgere l’ultima ora di matematica, di tanto in tanto lei si girava di scatto e loro come di consueto si fermavamo sorridendo. L’ora di attività sportiva finiva sempre così con quel gioco che continuava nel corridoio e che regalava sorrisi caldi, e scoppiettanti allegri come popcorn. Si continuò a giocare anche in aula quel venerdì e s’inventarono strane operazioni matematiche utilizzando i nomi di alunni e docenti. Si fecero stravaganti ipotesi per trovare la regola di quelle strane espressioni e la campanella di fine lezione li trovò impreparati.

«Maestra, mi aiuti a riordinare l’astuccio?»

«Maestra, mi chiudi i lacci della cartella?»

Scesero le scale con i berretti un po’ storti sulla testa, con qualche giacca ancora da abbottonare, sempre un po’ in ritardo, ma sempre sorridenti.

Dopo di me iniziò il lock down. Fu il periodo in cui vidi le persone sopravvivere, arrendersi, lottare, reinventarsi, avvicinarsi nella lontananza, separarsi nella vicinanza e poi lentamente ricominciare a vivere. Fu il periodo delle separazioni, delle sottrazioni, dei divieti, della chiusura, della mancanza e della didattica a distanza in cui i sorrisi dei bambini si potevano lentamente risvegliare e poi vedere solo nei rettangoli di un Meet.

Lei aveva visto rettangoli ruotati, sottili, e massicci, isoperimetrici, equi-estesi, ma sorridenti non li aveva visti mai!

«Troveremo un modo per stimare l’area dei vostri sorrisi rinchiusi in questi rettangoli disse e si misero al lavoro!»

Io li guardai mentre operavano. Erano tutti un po’ trasformati e pensai che anch’ io mi stavo trasformando, pensai che forse non sarei stato l’ultimo. Pensai che dopo di me lentamente sarebbe rifiorito il periodo dell’addizione, dell’abbondanza, dell’incontro, della vicinanza. Capii che dovevo smetterla di considerarmi speciale e unico e smisi di darmi tanta importanza!

Anna Cervellati