LA DECISIONE GIUSTA

Non era tanto la consapevolezza di trovarsi immobilizzato a quella poltrona di metallo, a innervosirlo, quanto il fatto di ritrovarsi ancora al buio, nonostante avesse già ripreso i sensi. Avrebbero potuto fargli qualsiasi cosa, questo lo sapeva. Era grave abbastanza farsi pizzicare a scattare fotografie dentro i sacri schedari della Templia Inc., giusto per portarsi a casa qualche souvenir? In cuor suo, Riccardi riteneva che lo fosse. Ma tanto da ammazzarlo? Be’, questo non poteva saperlo. Si augurava di no, è naturale, e il fatto di ritrovarsi ancora vivo era interpretabile come un segnale positivo. Come del resto, al contrario, poteva far supporre che ci fosse qualcosa di speciale in serbo per lui, e la cosa non lo entusiasmava particolarmente.

Vecchio mio, questa volta l’hai fatta grossa. E sì che non sei un novellino. Sarà l’età…

Accompagnato da un colpo secco e improvviso un fascio di luce si accese di fronte a lui, un cono biancastro che piovve dal nulla, perfettamente verticale, a rivelargli due inquietanti presenze, immobili a poco più di due metri dalla poltrona. Si ritrovò a strizzare le palpebre per un istante, il cuore in subbuglio. Bene, si comincia!

Come due attori mummificati sul palcoscenico di un teatrino di quart’ordine, in tutto il loro splendore, sotto lo sguardo glorificatore dell’occhio di bue stavano due robot, talmente simili alla Maria di Metropolis da rendere difficile trattenere un sogghigno. Il colonnello Torlovich era sempre stato un tipo bizzarro, anche se raramente davvero originale. Riccardi si sistemò un po’ meglio, per quanto glielo permetteva quella scomodissima poltrona, immobilizzato da massicci anelli luccicanti ai polsi e alle caviglie. Cominciava ad avvertire in tutto il corpo un vago ma diffuso formicolio.

Subito, da un altoparlante nascosto nel buio (comunque in alto, tanto per comunicare l’incombenza e la supremazia dell’oratore) il colonnello Torlovich fece udire la propria voce nasale, incrinata da un maldestro tentativo di apparire spontaneamente ironica.

«Bene, mio caro, incauto amico. Vedo che ti sei ripreso dalla botta in testa, e me ne compiaccio. Non mi perderò in preamboli, non temere. Sono troppo curioso di metterti alla prova, e soprattutto mi piace dimostrare quanto io e tutti noi dell’onorata Templia siamo magnanimi nei confronti dei prigionieri. No, taci. Ascolta solamente, per adesso. Ciò che sto per proporti, in pratica, è una possibilità concreta di salvare la pelle, e di riabbracciare la tua amichetta. È solo un giochino, niente di più, tanto per mettere alla prova la tua arguzia, così potrai anche riscattarti per la magra figura che hai fatto oggi. Ma avevo detto che non mi sarei perso in preamboli, e invece ho già trasgredito. Per cui, dato che ti vedo impaziente, ti presento Castore…»

A quelle parole, il robot alla sinistra di Riccardi emise un ronzio che preluse all’accensione di una vistosa lettera C, rossa come il fuoco, sulla fronte. E qui, da quell’ottuso cinefilo che era Torlovich, si citava Il Golem.

«… e Polluce!»

Una P scarlatta si accese quindi sulla fronte dell’automa gemello. Riccardi sospirò profondamente.

«E ora», continuò il colonnello, «veniamo al sodo. Avrai di certo notato quei due tasti sui braccioli della poltrona, accanto ai tuoi pollici.» (No, non li aveva notati, per cui lo fece ora. Due grossi, minacciosi tasti neri). «Ebbene, uno dei due ti libererà mani e piedi, e tu sarai libero di andartene da qui. Nessuno ti torcerà un capello, parola d’onore. L’altro tasto, invece, ti permetterà di entrare di diritto nella folta e veneranda schiera dei martiri dello spionaggio industriale. Come scegliere, dunque? È presto detto: semplicemente ponendo una domanda, una sola, a uno dei nostri due amici. Semplice, no? Ma c’è un dettaglio che devi conoscere, prima di formulare la tua domanda: uno di loro ti risponderà sinceramente, invece l’altro ti mentirà. Cosa domandare, quindi? E a chi? A Castore? O a Polluce? A te, e al destino, l’ardua sentenza! Se hai ancora indosso la camicia con cui sei nato, Riccardi, arrivederci alla prossima occasione. In caso contrario, adieu

Con un lieve sfrigolio la voce scomparve, inghiottita dal quel buio che l’aveva partorita. Riccardi rimase ad ascoltare il proprio respiro, mentre il sangue gli pulsava vivacemente alle tempie. Non poteva, neanche impegnandosi, credere a quanto aveva appena udito. Il bastardone dev’essersi proprio bevuto quel po’ di cervice che gli avanzava nel cranio! Anche volendo soprassedere sui toni beffardi e anfitrionici degni di un perfetto mentecatto con i quali Torlovich si era espresso, non era possibile accettare di essere sottoposti a una farsa di lega tanto bassa. La sua vita era davvero legata a quella scempiaggine? Se le cose stavano così, allora era tempo di appendere tutto al chiodo e darsi al giardinaggio!

Va bene, mister simpatia. Se ti va di giocare, giochiamo. Però, avresti potuto escogitare qualcosa di meglio…

Conosceva quel tipo di enigma dai tempi delle scuole, e il fatto che ci fosse qualcuno convinto di metterlo in difficoltà in quel modo era come minimo umiliante. D’accordo, vediamo di darci un taglio. Come doveva rivolgersi a quei due beccamorti di metallo? Li doveva chiamare per nome? Proviamo…

“Ehm… Polluce?”

Era lieto che nessuno fra quanti lo stimavano potesse vederlo e sentirlo, in quel momento. La lettera P sulla fronte del robot interpellato si fece ancor più vivida, e prese a lampeggiare. Be’, almeno Riccardi poteva credere che lo stesse ascoltando.

«Polluce, vecchio mio, dimmi: se io domandassi a Castore quale tasto devo premere per liberarmi e tornarmene a casa, cosa mi risponderebbe?»

Il cuore, adesso, aveva preso a battere un po’ più veloce. Era stato abbastanza chiaro, oppure avrebbe dovuto…?

Una voce atona, gracchiante e cavernosa, emerse dalle profondità dei circuiti vocali dell’automa: «Castore risponderebbe: quello a destra.»

Riccardi, che si era ritrovato a trattenere il respiro, sbottò in una risatina di sollievo.

«Ti ringrazio, Polly!» Per una frazione di secondo lo sfiorò l’idea che fosse stato quel pagliaccio di Torlovich, a parlare; però lo conosceva a sufficienza per sperare che il suo elevatissimo senso dell’onore non lo avesse abbandonato con gli anni, e se dava una parola, per quanto stupida, c’era da fidarsi.

Dunque, com’era la faccenda? Se Polluce era quello sincero, allora gli avrebbe riferito la menzogna di Castore. E se invece era lui il bugiardone, avrebbe per l’appunto ribaltato la risposta corretta del compare. In entrambi i casi, quindi, “quello a destra” era il tasto da evitare.

Inspirando a pieni polmoni (sforzandosi di reprimere un serpeggiante senso di panico che aveva assunto l’evidenza di un tremore alle mani), Riccardi schiacciò col pollice il tasto a sinistra, e morì.

Una punta acuminata scattò in avanti, balzando come un animale da preda dalla sua tana all’interno del poggiatesta, sporgendosi trionfante dalla bocca spalancata. Si udì appena un gemito, poi il silenzio tornò a regnare su quella scenetta, infastidito solo dal regolare ticchettio delle gocce di sangue sul pavimento.

Dopo un decina di secondi, annunciata da un ronzio, la spaventosa voce di Polluce riverberò ancora una volta tra le pareti nascoste nell’ombra.

«Alla nostra, destra.»

 

Prima pubblicazione: catalogo editore Fanucci Futuro News, mar.1999