DENTRO IL PENTACOLO

La concentrazione di Nico era tale che non udì affatto i passi avvicinarsi, e quando li udì era già troppo tardi per nascondersi. Tuttavia, se anche ne avesse avuto il tempo, non si sarebbe mosso di lì per tutto l’oro del mondo.

Mantenendosi inginocchiato sul terriccio umido e odoroso sollevò lentamente il capo. Il suo cuore era in tumulto, ma esteriormente lo si sarebbe detto imperturbabile come una scultura di ghiaccio. E quando vide l’uomo fermo a pochi metri dal punto in cui lui era accucciato non trovò di meglio che restare a fissarlo, in silenzio.

Il sole non era ancora sorto, e un pallidissimo chiarore indugiava appena in lontananza, oltre l’intrico dei frutteti spogli e dei pioppi intirizziti. L’intera campagna era percorsa da un venticello pungente che pareva divertirsi a stuzzicare fischiando le orecchie paonazze di Nico. Di quando in quando, lo sgraziato verso di qualche uccello graffiava come un gesso spezzato il cielo d’ardesia. In distanza, oltre la foschia che ovattava il mondo, le campane della chiesa di Portomaggiore azzardarono sei timidi rintocchi.

Il contadino avrebbe preteso delle spiegazioni, ora. Era suo diritto. Dopotutto Nico si era intrufolato in una proprietà privata, a un orario piuttosto assurdo, e stava facendo qualcosa che difficilmente avrebbe potuto essere spiegato, e ancor meno capito. Decisamente, non era una situazione brillante.

«E ti chi iet? Cusa iet dré far chi?» tuonò l’uomo in vernacolo ferrarese.

Nico sarebbe sbottato in una risata quasi isterica, per quella grossolana intrusione della prosaica realtà durante un simile momento di elevazione spirituale. Squadrò l’intruso (pur con la coscienza che in quel frangente il concetto di intruso era opinabile): un cappellaccio dalla tesa floscia era calcato sopra un testone massiccio dal volto bellicoso, e un ampio mantello di panno marrone proteggeva la figura fino alle caviglie. Da dietro, oltre la spalla destra, faceva capolino la canna di una doppietta, e quello fu un particolare che il cervello di Nico – per quanto ottenebrato dalle pratiche mistiche – registrò con subitaneo allarme.

Il contadino gli aveva domandato, prevedibilmente, chi fosse e cosa stesse facendo lì. E nessuna risposta, neppure la più ingenua e incredibile, gli affiorò alle labbra. Valutò le apparenze, e si rese conto che vi era ben poco da spiegare.

Si trovava inginocchiato al centro di un cerchio composto da pietruzze bianche; il suo capo era cinto da una corona di rami di calicantus; indossava una tunica nera che assomigliava vagamente a un saio dai bizzarri ricami dorati, e nonostante la temperatura era scalzo, se si eccettuava l’agglomerato di fanghiglia secca che gli nascondeva quasi del tutto i piedi. Un sudore gelido gli rendeva lucida la fronte, ed era arduo dissimulare l’affanno mentre caldi sbuffi grigi gli sibilavano fuori dai denti. Accanto a lui, alcune candele spente e un groviglio di penne di gallina incidevano più a fondo l’enorme punto di domanda che gravava sulla sua persona. Come avrebbe potuto spiegare a quel rozzo individuo l’importanza di quanto stava compiendo?

Nico era affiliato al circolo dei “Mistici Estensi”, e come ogni mistico che si rispetti il suo sogno era quello di incontrare qualcuna – anche una soltanto! – delle evanescenti entità che popolano le mille dimensioni parallele alla nostra. E per evocare Aldamaar, demone agreste della Sfera Inferiore, quello era il tempo – la seconda domenica di marzo – e il luogo adatto, almeno stando ai Testi Proibiti (che ogni adepto possedeva in fotocopia). In base ad accurati calcoli, quello specifico punto geografico rappresentava il crocevia di particolari flussi astrali, ed evocando Aldamaar prima del sorgere del sole seguendo un rituale occulto si sarebbe potuto beneficiare dei suoi servigi. L’importante, comunque, era tracciare sul terreno – utilizzando sassolini bianchi raccolti attorno a una tomba – il Sacro Pentacolo di Zyot-Hol (due triangoli scaleni inscritti in un cerchio), e rimanere all’interno del suo campo protettivo per tutta la durata del rituale. La prima parte della cerimonia, adesso, era praticamente terminata. Si trattava solo di aspettare.

Nico stava assorto, bisbigliando antiche formule memorizzate non senza sforzo, quando il contadino si era intromesso col rischio di mandare tutto all’aria (senza contare i cinque giorni di digiuno e i quindici di abluzioni con acqua ossigenata cui si era sottoposto per prepararsi all’evento). Le litanie per richiamare Aldamaar erano state cantate, e forse erano state proprio quelle ad attirare l’attenzione del colono. In ogni caso, ormai il dado era tratto. Qualunque entità fosse stata smossa dalla propria inconoscibile dimora, per nessun motivo al mondo Nico avrebbe abbandonato il centro del pentacolo di Zyot-Hol. Ne andava della sua vita.

«A i’ho capì», ruggì allora l’uomo. «T’iè ’n drugà!»

No, pensò disperato Nico. Non ha capito proprio un bel niente! E non sono un drogato! Se eccettuiamo quelle foglie di ortensia che ho dovuto fumare…

Senza aggiungere altro, con un aggraziato movimento del braccio il contadino impugnò il fucile e le piccole bocche delle due canne fissarono il Mistico Estense con aria di sfida.

Nico trasalì, e d’istinto tentò di sollevarsi. Ma le sue gambe, provate dal freddo e dalla lunga immobilità, non risposero nel migliore dei modi. Tentò goffamente di allungare una mano, gemendo per lo spavento, e il suo corpo si trovò sbilanciato all’indietro. Comprese ciò che stava accadendo quando era ormai impossibile rimediare. I suoi piedi scivolarono sul fango, e affidandosi a uno scomposto scatto del busto Nico ottenne solamente di ricadere sulla schiena. Percepì contro le scapole le pietruzze che componevano il pentacolo. E si rese conto che con la testa e con le spalle ora si trovava all’esterno…

Accadde tutto nel giro di pochi secondi.

L’aria parve rabbrividire attorno al suo capo, come davanti a una fiamma invisibile. Quindi, filamenti di fumo si materializzarono nel vento, emersero dalle piaghe del terreno, trasudarono dai tronchi dei pioppi. Informi tentacoli guizzanti accorsero come dita fameliche a intrufolarsi nella sua bocca, nel naso, nelle orecchie, dentro agli occhi… E, nel più assoluto silenzio, il suo corpo riverso si accartocciò su se stesso, riducendosi a un misero involucro di pelle senza più nulla da contenere. I bulbi oculari, scalzati dalle orbite, si incenerirono come palline di carta nel focolare.

Bastò poi un soffio di vento più vigoroso, e tutto si dissolse. Tutto finì.

Il contadino ripose la doppietta a tracolla, con aria compunta. La sua famiglia godeva di buona salute e di ottimi raccolti da ormai cinque generazioni. Per meritare e mantenere quei privilegi non doveva far altro che costringere a uscire dai pentacoli protettivi quei poveri gonzi che quasi ogni anno, a marzo, si presentavano per mettere alla prova le loro conoscenze magiche nell’illusione di ottenere chissà cosa.

Accennando un rispettoso inchino col capo, rivolto all’invisibile presenza che regnava in quella particolare piccola radura nel pioppeto, l’uomo bofonchiò:

«Buon appetito, Padrone.»

E si allontanò di buon passo mentre all’orizzonte si andava annunciando la luce di un nuovo giorno.

 

[Prima pubblicazione: Mystero, apr. 2003]