Come i cristalli

Il biglietto bianco con immagini geometriche verdi e scritte nere, spinto delicatamente dalla mano destra, entrò in posizione orizzontale in una fessura per uscire dopo pochi secondi da un foro posto sulla parte superiore della macchina grigia in senso verticale. Lei sorrise, immaginò di avere bevuto un potentissimo caffè capace di svegliarla in modo istantaneo, rimetterla dritta in piedi e darle la forza necessaria per aprire in maniera nervosa e scattante due porte di plastica trasparente. Gli sguardi attenti sul cartello appeso al muro per capire la direzione da prendere poi i passi veloci scanditi dal rumore della cinghia del marsupio allacciato sulla schiena la condussero su quel treno sotterraneo. Una mano stretta a una maniglia, nelle orecchie la melodia allegra di un ukulele che un ragazzo dai capelli neri e corti suonava a pochi passi da lei, sul corpo il colore del sole di agosto che aveva accumulato durante la camminata dall’hotel alla metropolitana; le porte si chiusero e il viaggio iniziò. I suoi occhi erano rapiti dai tanti colori dell’abito floreale di una ragazza coi capelli biondi e mossi che, sorridendo, chiacchierava in inglese con un giovane di corporatura molto esile, che indossava capi di abbigliamento tutti di uno stesso blu monocromatico; poi lo sguardo si spostò. Di fianco a lei due giovani vestiti nello stesso modo: maglietta bianca leggermente scollata e jeans corti attillati con un piccolo risvoltino finale, lei percepì la scelta di quegli indumenti non casuali, quasi un segno voluto per indicare appartenenza. Seduta con uno zainetto color sabbia appoggiato sulle gambe una donna che pareva perdersi in un lungo vestito troppo largo per la sua corporatura leggeva un libro scritto in francese e sembrava non sentisse i rumori: lei era dentro a quel romanzo e stava vivendo ciò che le pagine le suggerivano. L’ukulele smise di suonare e il giovane artista si diresse verso un altro vagone, e, come succede solo nelle staffette ben riuscite, un uomo di corporatura esile prese il suo posto accese la cassa portatile e con la sua potente e melodiosa voce intonò canzoni spagnole capaci di infondere allegria. Finalmente qualche posto si era liberato e lei poté sedersi. Era stanchissima, quasi distrutta. Quel sedile di plastica grigia le parve un trono, una sedia ergonomica, un prato in cui stendersi, una piscina in cui finalmente poteva rilassarsi. Il ricordo delle notti insonni, il medico chiamato in hotel, quel dolore assurdo, costante, martellante, la fatica di comprendere tra un inglese incerto, uno spagnolo gesticolato esattamente la terapia da intraprendere. Poi, quando finalmente pareva tutto chiaro, quel consiglio scandito lentamente di bere a piccoli sorsi una bevanda tipo Aquarius. Aquarius? Quella parola le ricordava solo il suo segno zodiacale. No, non poteva trattarsi dell’oroscopo, chi parlava era una dottoressa, non una cartomante e poi non si può bere un segno zodiacale e nemmeno un acquario pieno di pesci, soprattutto se le condizioni fisiche sono disastrose! Ma ecco che – come talvolta accade – le parole confondono ma i gesti e le immagini ci aiutano; e anche in quella notte risolsero l’arcano. Il viso pallido, le occhiaie profonde, i movimenti più lenti, una bottiglia tipo Aquarius nello zainetto: era quasi un miracolo che fossero tutti lì. Il suo sguardo ora catturava un giovane padre mentre accarezzava il viso di una bimba dai fini capelli rossi che ricambiava le coccole con un sorriso; poi si soffermò su un paio di sandali in cuoio con cinturini che salivano oltre la caviglia di una anziana signora e pensò che, come i braccialetti colorati sull’avambraccio, anche i lacci che stringevano i polpacci per lei erano sempre affascinanti. Poco distante si era seduta una donna che pronunciava parole veloci dal tono tagliente, come fossero lampi violenti durante una burrasca, a un interlocutore protetto dalla distanza che dona ogni conversazione telefonica. La telefonata finì e lei girando lo sguardo assistette ad una conversazione che le fece venire la pelle d’oca e catalizzò la sua attenzione. Silenzio. Silenzio tra le mani che si muovevano veloci, silenzio tra i sorrisi complici che si scambiavano gli interlocutori, silenzio tra le parole comunicate da gesti continui e ben definiti. Silenzio denso di parole eteree comunicate da bocche chiuse, silenzio capace di emozionare, silenzio denso di argomenti condivisi. La metropolitana di fermò e facendosi strada tra persone, valigie e passeggini anche lei come la maggior parte dei viaggiatori scese. Percorse scale sotterranee e poi finalmente gli ultimi gradini la riportarono a vedere la luce del caldo sole di agosto. Lì di fianco a lei, sulla sua destra imponente, imprevedibile, maestosa comparve la meta del suo viaggio. Per un secondo il suo cuore bradicardico accelerò le pulsazioni, la stanchezza sul suo viso lasciò il posto allo stupore.

Ma fu solo quando entrò nel capolavoro incompiuto di Gaudì che ogni sensazione percepita si concretizzò in grandi, calde e copiose lacrime.

Silenzio tra la moltitudine di persone rapite da quel gioco di luci e colori, silenzio tra gli occhi spalancati meravigliati da tanta bellezza, silenzio in cui vivere insieme a sconosciuti un’emozione condivisa. I due ragazzi abbassarono il risvoltino dei pantaloni per essere più in sintonia con il luogo, la donna avvolta nell’abito troppo largo strinse il libro che teneva in mano ed ora era completamente immersa nel reale, l’abito floreale della giovane sembrava monocromatico in quel luogo che risplendeva di colori.

Immersa nella luce gialla ed arancione mentre guardava i visi dei visitatori pensò che Gaudì avesse realizzato un vero capolavoro capace di riunire l’umanità in una narrazione antica comprensibile a tutti.

Erano chiaramente tutti la stessa umanità mentre ammiravano quel luogo al di là delle lingue parlate, delle religioni professate, delle ideologie, i loro visi raccontavano di stupore, i loro occhi come cristalli brillavano e riflettevano le stesse emozioni.

Immersa nella luce blu pensò che la bellezza può salvare, che ogni bruttura ci impoverisce; che dare ci arricchisce, pretendere ci rende soli. Pensò che siamo tutti esseri umani, portatori di storie e immagini ancestrali appartenenti all’infanzia di una stessa umanità, quell’umanità che non si trasmette geneticamente come il colore degli occhi ma che si è sviluppa grazie alle narrazioni condivise che ogni vera opera d’arte può svelare.