Thinking Out Loud (Pensando ad alta voce)

Thinking Out Loud (Pensando ad alta voce)

Una distesa di terra arsa dal sole di luglio riprendeva energia ad ogni zampillo d’acqua donato dell’irrigatore e prometteva nutrimento alle piante di mais oramai alte più di un metro. Il cielo appariva di un azzurro monocromatico, senza nemmeno una nuvoletta bianca e sembrava essere stato dipinto da un bambino che aveva pochi colori, molta fretta e poca fantasia.

Grandi case coloniche bianche dai tetti color mattone, spesso affiancate da alti silos cilindrici svettanti come cime montuose, facevano capolino tra i pioppi che apparivano come soldati schierati impegnati a difendere la bellezza di quelle pianure emiliane.

Bastava percorrere pochi km per intravvedere distese di terra su cui il marrone scuro si alternava in modo regolare a striature di colore giallo ocra; quelle meches naturali sul terreno raccontavano di un raccolto già avvenuto. Si ricordò di un racconto che le aveva fatto suo suocero: «Guidavo e sono passato davanti ad un campo di grano, il tempo di comprare il pane, un po’ di frutta, e al ritorno era già stato tutto raccolto. Quando ero ragazzo, si usava la falce per tagliare i cereali e il tempo di raccolta era molto diverso. Le ore passavano lente tra il sudore e la fatica e scolpiva sui nostri corpi muscoli vigorosi di cui ora conservo solo il ricordo».

Già la memoria muscolare è breve e serve costante allenamento per tenerla viva, nella memoria della mente invece si fatica a dimenticare ogni cosa che ci ha donato un’emozione, tutto il resto svanisce in fretta.

Lei pensò a come era cambiato il lavoro nel tempo di una generazione, ricordò i racconti in cui sua nonna si descriveva avvolta da un cappello di paglia giallo e faticava nei campi come un uomo per mantenere le sue due figlie dopo che la guerra le aveva portato via per sempre il marito. Nuove tecnologie avevano ridotto le fatiche fisiche, costretto i corpi alla sedentarietà, aumentata la produzione, ma il tempo rimasto a disposizione per la vita personale forse ora era ancora meno di allora, qualcosa non aveva funzionato. Ci si era convinti che cose in passato considerate inutili fossero divenute necessarie e si dedicava tempo e fatica per raggiungere il superfluo; quel superfluo che ci illude possa compensare l’eccessivo dispendio di energie quotidiane in uno sterile rincorrersi infinito di attimi di felicità. Neanche le guerre che un tempo avevano equipaggiato suo nonno di divisa e scarpe improvvisate per il freddo della Russia, erano finite, anzi continuavano tenaci alimentate da un velato odio cieco, che nascondeva ora come allora interessi economici capaci di arricchire pochi sulla pelle lasciata da molti. Gli effetti della guerra lei gli aveva sempre visti negli occhi di sua madre, occhi che per una vita avevano chiesto interrogativi il perché fosse dovuta crescere senza un padre, occhi che parlavano del dolore dell’assenza e che l’avevano resa una donna incapace di lasciare andare chi amava. Era servito tempo, fatica e molta calma a farle capire che l’amore se è tale non muore nella distanza, che se ami lasci libero e liberamente chi ti vuol bene torna.

Ma gli occhi di sua madre avevano lasciato un segno dentro di lei che si accendeva ogni

volta che doveva salutare chi si portava nel cuore, fingeva forza ma in questo anche lei era fragile.

Una guerra non finisce con un trattato di pace: i suoi effetti durano nei comportamenti delle persone per generazioni. É che a volte lo dimentichiamo.

Sì quella memoria che dovrebbe ricordare ciò che tocca il cuore a volte proprio per difendere quel cuore rimuove le esperienze negative, finge che non siano mai esistite o ci induce a

pensare che capiteranno sempre ad altri, senza farci riflettere sul fatto che gli altri a turno siamo noi. Forse è per questo che lo studio della storia non ci rende immuni dal ripetere gli stessi errori.

Una canzone sparata ad altissimo volume la riportò alla realtà. La voce di suo figlio accompagnava quella melodia e mentre suo marito chiedeva di abbassare il tono perché serviva concentrazione per guidare lui scandì chiaramente Thinking out loud e per qualche minuto tutto tacque.

Non i suoi pensieri però.

Thinking out loud… no, i suoi non erano pensieri ad alta voce per ora restavano silenziosi e protetti dentro di lei.

La campagna ora regalava un campo di girasoli tutti ubbidienti girati nella stessa direzione. Tutti tranne uno. Sorrise e si chiese se si fosse distratto, se fosse desideroso per partito preso di fare l’opposto del gruppo, se non avesse compreso la regola o se l’avesse capita bene, ma non fosse d’accordo. Sorrise e pensò che c’è una bella differenza tra chi si oppone ad una regola dopo averla recepita ed interiorizzata, rispetto a chi vuole essere per forza sempre fuori dal coro. Chissà chi era quel girasole: un libero pensatore, un asociale, un rivoluzionario, un ribelle, un adolescente in protesta, un anziano convinto che nei tempi moderni tutto sia sbagliato.

La musica riprese ad una tonalità più bassa, lei tornò a guardare fuori dal finestrino: le pianure emiliane ora regalavano la vista di lunghe file parallele di alberi da frutta che necessitavano ancora di sole per far maturare il raccolto.

Anche la pianura che all’apparenza può sembrare lineare e piatta, offre paesaggi molto diversi a chi la sa guardare.

La vista di quelle piante dai frutti ancora acerbi la riportarono ai giorni di fine agosto al tempo in cui raccoglieva le pere per far quadrare i conti durante gli anni universitari. I capelli lisci e biondi legati in una coda spettinata, la frangetta ribelle resa mansueta da una molletta, un paio di pantaloni giallo ocra, una maglietta a righe bianca e blu, scarpe comode, un pezzo di corda legato al collo alle cui estremità si trovava il calibro in metallo per misurare la frutta ed era pronta a tirare uno strano carrello di ferro che sosteneva due casette di legno in cui avrebbe dovuto deporre con delicatezza e velocità le pere decana a seconda della loro misura. I giorni trascorsi tra quei filari erano stati molti ma solo di un paio aveva un ricordo chiaro mai svanito nel tempo e capito forse solo molti anni dopo. La memoria a volte funziona meglio quando pone degli interrogativi, quando ci lascia dei dubbi quando ci impone di pensare.

In uno di quei giorni, di fronte a lei c’era una ragazza con i capelli neri e mossi che si ribellavano alla fascia che avrebbe dovuto contenerli, con la pelle olivastra che le donava una abbronzatura costante e naturale, occhi neri e grandi che raccontavano storie di luoghi inesplorati. Era lì, dall’altra parte dello stesso albero a deporre come lei i frutti nella casetta, si guardavano perché dovevano procedere insieme in modo lesto, l’una dava il tempo all’altra. Si scrutavano i loro colori così diversi, la loro corporatura così simile, di sicuro provenivano da luoghi distanti, ma i loro sorrisi le rendevano vicine, i loro accenti così diversi, le loro poche parole così simili: di sicuro sapevano capirsi. Il sudore bagnava quegli occhi scuri, una mano ogni tanto si posava sullo stomaco come a volerlo quietare, i passi a volte erano lenti e la testa che girava impediva un’andatura stabile. Non diceva nulla ma era chiaro che faticava molto. Non si poteva perdere il ritmo, però non era possibile; senza dirsi nulla trovarono un tacito accordo per gli ultimi giorni rimasti. Il braccio pallido si faceva strada tra i rami e tirava così entrambi i carretti, con agile movimento del polso raccoglieva anche alcune delle pere collocate dalla parte opposta, si guardavano e bastava.

Molti anni dopo in una mattina iniziata come tutte le altre era la sua mano a posarsi sullo stomaco tentando inutilmente di calmare una fastidiosa acidità, era la sua testa che girava e la rendeva instabile era il suo sudore a bagnare la sua faccia pallida. Fu una giovane collega senza chiedere troppe spiegazioni ad aiutarla a finire quella giornata di lavoro prima di scoprire a cosa fosse dovuto quel malessere.

Mentre i suoi capelli diventavano più lucidi e domabili, la sua pelle più luminosa e la sua pancia cresceva ed assumeva una forma molto simile ad una pera decana di calibro straordinario, lei ricordò la sua compagna di lavoro tra i campi assolati dell’Emilia e pensò che probabilmente lei durante quella raccolta stava diventando madre.

Che strani movimenti fa la memoria, si attiva per associazioni, per assonanze, per odori, forme, sapori, che trovata la chiave giusta, fanno aprire cassetti mentali da cui escono veri tesori: i nostri ricordi capaci di donarci un sorriso a distanza di tempo e attimi di felicità e di magia. Come magiche sono le persone quando sanno essere solidali, quando sanno capirsi, sostenersi, incontrarsi davvero.

Una frenata e una manovra in retromarcia la riportarono alla realtà.

Di fronte a lei il mare: com’è bella pure la terra quando accarezza il mare, quando le onde abbracciano la sabbia, quando la sabbia si lascia modellare dall’acqua.

Mentre scendeva dall’auto a piedi nudi e camminava verso quella distesa d’acqua pensò che in fondo l’Emilia è anche questo: è incontro tra terra e mare, è terra d’incontro.

(Anna Cervellati)