Festa del libro ebraico, da Grossman consigli per una buona vita

Tania Droghetti

Da una festa capita a volte di tornare con dei doni, da quella del libro ebraico, che si è svolta il 19 maggio scorso a Ferrara, organizzata per il decimo anno consecutivo dal Meis, il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, chi ha assistito all’incontro con lo scrittore israeliano David Grossman (nella foto) al Teatro Comunale Abbado, ha portato a casa una serie di consigli, non solo per una buona scrittura ma più in generale per una buona vita.

Cominciando dai primi, alla domanda del direttore del Meis Simonetta Della Seta su come trovi i personaggi dei suoi libri, Grossman ha risposto, come ha fatto in realtà per tutto l’incontro, raccontando un episodio della sua vita: <Da sempre mi devo identificare fisicamente con i miei personaggi, devo capire come si muovono, quali sono i loro colori. Per Qualcuno con cui correre, cercavo una ragazza dura e tenera al tempo stesso, ma non riuscivo a trovarla, a vederla da nessuna parte e quindi rimandavo la scrittura, poi un giorno, in un grande magazzino fuori Gerusalemme, ho visto quest’adolescente vestita di blu e ho capito solo guardando la sua mascella che era insieme dura e tenera, questa immagine, questo incontro, senza voci, mi è bastato per tornare a casa e cominciare a scrivere>.

Grossman prende dunque la fisicità dei suoi personaggi da chi lo circonda, come se la realtà gli venisse incontro e lui potesse “rubarle” qualcosa: <Quando scrivo è come se vedessi attorno a me ciò di cui voglio scrivere, se voglio scrivere di amore vedo tutti innamorati, se scrivo della Shoah divido tutti in vittime e carnefici e da tutte queste figure prendo qualcosa per le mie storie>.

E come si fa a raccontare una storia come se si fosse una donna o un bambino? Di nuovo uno spaccato di vita personale, che riguarda la nascita del personaggio di Orah, protagonista di A un cerbiatto somiglia il mio amore, una madre che cerca di allontanare il più possibile, anche spazialmente iniziando un viaggio, l’idea che il figlio, impegnato in un’incursione militare in Cisgiordania, resti ucciso: <Non riuscivo a catturare Orah – ha spiegato Grossman – a capire come agiva, cosa pensava e così ho deciso di scriverle una lettera in cui le chiedevo perché non si arrendesse a me e a quel punto ho intuito che ero io a dovermi arrendere a lei, lasciarla entrare, l’ho fatto ed ho capito che noi possiamo essere tanti personaggi diversi. Tendiamo a limitarci ma possiamo pensare e sentire anche con un altro sesso o un’altra età, anzi a volte pensare di essere diversi da come si è è un ottimo esercizio mentale che ci apre l’anima. Io posso pensare che potevo nascere qualche chilometro più a nord ed essere palestinese. Questo esercizio ci insegna ad essere flessibili>.

E questo stesso esercizio, quello di provare a vedersi diversi, Grossman lo fa fare anche ai suoi personaggi, a Dova’le, per esempio, il protagonista di Applausi a scena vuota, un cabarettista che cerca di far ridere a qualunque costo, usando sul palcoscenico un umorismo spesso offensivo e irritante, fino a quando una donna tra il pubblico non gli ricorda che lui non era così, era un bravo bambino, <quella donna lo mette di fronte alla realtà – ha sottolineato lo scrittore – e cioè che per 40 anni lui ha fatto una vita assurda, che non gli appartiene, che non voleva. Ci sono persone intrappolate in un lavoro, in un corpo, in una matrimonio infelice, arte e letteratura ci possono aiutare a ritrovare il nostro io vero>.

Fondamentali invece, quando Grossman si cala nei panni di un bambino, sono le sue esperienze di padre e nonno e i ricordi della sua infanzia, legati al fatto che la realtà potesse diventare qualsiasi cosa, bella ma anche brutta e piena di paura e di solitudine: <Quando il mio protagonista è un bimbo cerco di scrivere come una persona che non ha tante informazioni ed è sola ad affrontare il mondo con quelle poche a sua disposizione>.

Per costruire un personaggio però la fisicità, il saper vedere e sentire come lui, i ricordi a cui attingere non bastano, ci vuole anche una lingua per raccontarlo e descriverlo e alla domanda del direttore Della Seta su quanta ispirazione tragga dai testi ebraici Grossman ha risposto senza esitare: <Sono orgoglioso di scrivere in ebraico, una lingua che ha 4mila anni, una lingua che è come un fiume che raccoglie, trasporta e poi deposita sul fondo del suo letto e lascia sedimentare quello che incontra lungo il viaggio. Nella lingua ebraica moderna c’è molto di quella antica. Io sono profondamente laico ma studio i testi antichi perché non voglio privarmi di far parte di questa cultura. Se fossimo a cena tutti insieme Abramo capirebbe la metà di quello che dice mia figlia ventiseienne e io sono molto contento di appartenere a questo retaggio>.

Alla luce di questo le traduzioni dei suoi libri in altre lingue dovrebbero preoccuparlo e invece: <Mi fido dei miei editori e dei miei traduttori e poi per gli ultimi due libri ho radunato 15 dei miei traduttori in Germania, in un luogo dove si trovano migliaia di dizionari, io ho letto in ebraico i miei testi e ho osservato le reazioni dei vari traduttori ed è stato molto importante perché ognuno di loro aggiungeva qualcosa di diverso. L’ebraico è una lingua molto contestualizzata eppure viene tradotta  in ceco, in francese, in tedesco, in alcuni dialetti indiani e chi legge sente quello che ho sentito io. E comunque io mi auguro sempre che i miei libri vengano tradotti in tante lingue ma anche di risentire la voce di mio padre che mi dice, come fece per Il libro della grammatica interiore, ‘ma sei sicuro che fuori dalla nostra famiglia sarà capito?’>.

L’incontro si chiude con una domanda sullo storytelling, termine forse oggi un po’ abusato ma che semplicemente significa raccontare una storia, perché nei suoi libri c’è sempre qualcuno che lo fa? <Ognuno di noi ha delle storie che ama raccontare, perché ci fanno comodo e a forza di raccontarle diventiamo quelle storie ma forse se trovassimo un interlocutore attivo, che interagisce con noi, quelle storie potrebbero anche cambiare, ecco io mi definisco un “massaggiatore di storie”, le faccio raccontare ai miei personaggi perché poi chi le ascolta le fa diventare migliori, più vere>.