LA DIFFERENZA

Desideravo da tempo visitare quel pittoresco paesone non troppo distante da Ferrara, e approfittando di una domenica curiosamente mite mi ero improvvisato turista, libero e svagato come raramente ho occasione di sentirmi.

Dopo una mattinata trascorsa a visitare il Museo Civico e la Piccola Galleria d’Arte Locale, mi trovavo in un elegante bar affacciato sulla piazza principale a sorseggiare un lungo caffè d’orzo. La temperatura era discreta: non proprio primaverile, ma tale comunque da ispirarmi la scelta di un tavolino esterno. E mentre nel mio stomaco andava procedendo serenamente la digestione di un gigantesco toast annaffiato con mezzo litro di cedrata seguivo con sguardo distratto il colorito viavai, predisponendomi a riprendere la perlustrazione paesana alla volta del Parco della Ghirlanda e dei resti della Chiesa Maggiore.

Ero soavemente assorto in vaghe considerazioni circa la bellezza, la pace e l’armonia insite in certi luoghi, quando una voce improvvisa mi scosse inducendomi a girare il capo.

«Naturalmente, si capisce!»

A parlare era stato un uomo di mezza età seduto alla mia destra, a un tavolino di distanza. Teneva lo sguardo puntato sopra un quotidiano malamente disteso fra un piatto pieno di briciole e un bicchiere di birra quasi vuoto. Era solo.

«Siamo tutti nella stessa barca» continuò. «Così dicono, eh? Ah, ma io non ne sarei tanto sicuro!…»

L’istinto mi impose di distogliere lo sguardo, anche se mi sentii immediatamente infastidito. Ho sempre provato una naturale avversione nei confronti delle persone che parlano da sole in pubblico, a meno che non si trovino a essere incolpevoli vittime di qualche disturbo mentale; nel tal caso, la mia irritazione si trasforma comunque nell’impellente bisogno di porre tra me e il solitario conversatore la maggiore distanza possibile. Però… me ne stavo talmente comodo, e soddisfatto, e sereno, a godermi quel timido sole col mio caffè d’orzo, che l’idea di alzarmi e battere in ritirata mi parve una vigliaccheria, un torto nei confronti di me stesso. Scelsi quindi di ignorare la cosa, sperando che non si protraesse. La speranza fu subito disillusa.

«Adesso però sono stanco!» sbottò l’uomo richiudendo (o meglio, stropicciando) il giornale. «Qui le cose vanno tutte a catafascio, e l’unico rimedio davvero efficace, credete a me, è quello di ripopolare l’arcipelago. Altroché!»

Avvertii il mio cuore accelerare i battiti. Cielo, proprio un pazzoide doveva comparire a guastare tutto? Mi guardai attorno, per controllare se anche altri si fossero accorti di quella delirante presenza e ne fossero turbati. Mi avvidi invece con stupore che gli altri sei o sette avventori accomodati all’esterno del bar continuavano tranquillamente a conversare fra loro, mentre il barista zigzagava impassibile fra i tavolini reggendo vassoi tintinnanti. Finii d’un sorso il caffè che mi restava nella tazza e sbuffai in maniera manifesta, tanto per comunicare indirettamente il mio fastidio all’inquieto personaggio in odore di pazzia.

In tutta risposta, egli rincarò la dose: «Sicuro, sicurissimo! Il campo è stato coltivato, e chi ha orecchie per intendere intenda! So ben io con chi ho a che fare!»

Avevo ormai teso una gamba preparandomi ad abbandonare la mia postazione, quando accadde un fatto che capovolse in un istante la prospettiva dell’intera situazione: l’uomo si alzò, e voltandosi mi offrì l’altro profilo. Mi saltò allora subito all’occhio il sottile filo nero che dall’interno di un taschino saliva a scomparire sotto un ciuffetto di capelli. Un auricolare… L’uomo stava parlando al cellulare!

Un risolino nervoso mi colse, e scuotendo il capo tornai a rilassarmi. Osservai l’uomo allontanarsi, sempre impegnatissimo nella sua oscura conversazione, e mi trovai a riflettere sulle grottesche alienazioni, reali o apparenti, in cui i nostri tempi hanno fatto scivolare tutti quanti, volenti o nolenti. Ridicolo, ma anche conturbante, in un certo senso. Ero stato precipitoso, e non avevo esitato a tacciare di follia quell’uomo; ma veramente mi era parso un matto, uno dei tanti disgraziati che si incontrano un po’ ovunque, quei derelitti sempre invischiati nei loro universi storti, tutti presi a bofonchiare o a inveire…

«Il signore desidera altro?»

La voce del cameriere mi richiamò dalle mie considerazioni, e siccome mi sentivo ancora un sorrisetto incollato al viso mi parve simpatico rendere partecipe anche lui della mia impressione.

«No, grazie» gli risposi. «Stavo guardando quel signore, quello che si sta allontanando. Pensi che non mi ero accorto che stesse parlando al cellulare, con l’auricolare, e l’avevo preso per un matto. C’è davvero ben poca differenza, no?»

Il cameriere mi squadrò con aria interrogativa. «Fra chi?»

«Fra lui e un matto che parla da solo. Poca differenza, dicevo…»

Il cameriere posò un vassoio sul tavolino e con diligenza raccolse la mia tazza vuota. Poi, abbassando la voce e assumendo un tono complice, aggiunse: «A dirla tutta, quello è davvero un matto. Parla sempre da solo, ma non è l’unico. Pensi che il Comune ha distribuito a queste persone… ce ne saranno una dozzina, qui, forse più… dei finti auricolari da tenere sempre infilati nell’orecchio, in modo da non intimorire i turisti. Vede, lei si era spaventato, all’inizio, ma poi si è tranquillizzato. Non la trova un’ottima iniziativa?»

Lì per lì non seppi che cosa rispondere. Mi sentii disorientato, incapace di decidere se quell’uomo mi stesse prendendo in giro o se veramente il sindaco di quel paese si fosse risolto a prendere una decisione tanto assurda.

«Ah, sì? Però…» riuscii a bofonchiare. Ma fu solo quando il cameriere girò attorno al tavolino che notai l’auricolare infilato nel suo orecchio.

«Parlare da soli» continuò lui alzando la voce, raccogliendo piattini e bicchieri sparsi qua e là, «è l’unico modo per sentirsi veramente ascoltati, in questo paese. Altrimenti, qui, tutti parlano e nessuno ascolta, e quando tutti ascoltano nessuno parla. Così è la vita, mio caro signore. E se questa gigantesca sfera su cui tutti giriamo e rigiriamo la piantasse di fare la spola attorno al sole, una volta per tutte, e se ne andasse per i fatti suoi, a perdersi nello spazio, sai che spasso? Così la vedo io!»

A quel punto mi ero già alzato, e ringraziando l’uomo a denti stretti mi stavo avviando in direzione del Parco. Mi sentivo la testa in subbuglio e il cuore decisamente sotto sforzo per la sgradevole scoperta. Ma che storia era mai quella? Allora era vero, quegli auricolari servivano sul serio a far sì che non si notasse la differenza…

Accelerai il passo, mentre alle mie spalle il cameriere intonava a squarciagola l’inno nazionale.

[Prima pubblicazione: L’Ippogrifo, apr. 2010]