IL PATTO

Il vento inseguiva furioso torme di invisibili anime dannate per raggiungerle e farle a pezzi; oppure stava fuggendo di fronte all’incalzare di quella notte, buia come l’unico pensiero annidato nel cervello di Fausto.

Ma l’attesa era terminata.

Ora che dal fondo del marciapiede un uomo si andava avvicinando, la tenebra racchiusa nel suo cranio avvampò: fu una folgore, penetrata attraverso gli occhi per accendere quella mente devastata e trattenerla dal baratro su cui inesorabilmente penzolava.

Fausto si ritirò, pronto, confondendosi con le ombre del vicolo. Non c’era nessun altro nei paraggi. Ottimo. Il suo cuore era un tamburo impazzito. Ascoltando i passi dell’uomo in avvicinamento si ritrovò a stringere i denti con tale forza da percepire lampi di dolore fin nelle radici.

Agì con la rapidità di un predatore, perchè tale si sentiva. Un predatore…

L’ometto fu afferrato per il bavero con la brutalità dettata dalla disperazione. Uno squittio di stupore fuggì dalla bocca dello sventurato mentre Fausto lo trascinava nel vicolo per sbatterlo con la schiena contro il muro. Il suo cappello volò a perdersi nell’oscurità e i miseri ciuffetti del riporto si scompigliarono a ciondolare davanti a quegli occhi terrorizzati, resi ancora più attoniti dalle spesse lenti degli occhiali scivolati di sghimbescio.

«La prego…» gemette. «Ho… ho pochi soldi… non mi faccia del ma…»

Fausto gli serrò la bocca con una mano, sollevando poi un dito dinnanzi al proprio naso per imporgli il silenzio.

«Taci», gli ringhiò a pochi centimetri dal viso, offendendolo con l’alcool di cui il suo alito era pregno. Il poveretto adesso tremava, ma pure in quello stato di prostrazione si premurò di raddrizzarsi gli occhiali sul naso in un gesto che doveva essergli abituale. Il suo respiro era affannoso, sminuzzato in grigi frammenti di vapore.

Con circospezione, continuando a fissarlo negli occhi, Fausto gli tolse le mani di dosso e indietreggiò un poco; non tanto da permettergli di sgusciare via e fuggire in strada, però. Era troppo prezioso.

«Non ho intenzione di farti del male, e non voglio i tuoi soldi. Non sono un ladro. Voglio solo farti un regalo!» E così dicendo infilò la mano in una tasca del cappotto per estrarla subito richiusa a pugno.

L’ometto seguì con evidente apprensione ogni gesto dell’assalitore, aspettandosi il peggio da un momento all’altro.

Il pugno di Fausto si spalancò, e all’elusiva luminescenza giallastra che un lampione aveva l’ardire di sospingere fino a loro comparve un medaglione color bronzo appeso a una rozza cordicella.

«E adesso», grugnì il predatore, “ripeti queste parole, senza farmi perdere tempo: Vuoi donarmi questo medaglione? Su, ripeti!»

La voce del pover’uomo uscì in un filo evanescente: «Vuoi donarmi questo… questo medaglione?…»

La bocca di Fausto si allargò in un’espressione di malvagia esultanza.

«Con vero piacere, amico. Con vero piacere!»

Continuando a esibire la chiostra dei denti afferrò la funicella e la passò attorno al capo dell’ometto, che sempre più confuso rimirò quella patacca di metallo rossiccio su cui erano incisi una stella, un occhio e mille altri segni incomprensibili.

«Suppongo…» bofonchiò, sforzandosi di mantenere un tono affabile che non irritasse il suo squilibrato aggressore, «suppongo che dovrei ringraziarla…»

A quelle parole Fausto esplose nella più fragorosa, liberatoria risata di tutta la sua vita. Un riso demente, screziato da lacrime e singhiozzi.

«Se tu fossi una bella donna, ti bacerei!» berciò, e giù di nuovo a ridere e piangere insieme. Come poteva far capire a quel disgraziato l’inestimabile servigio che pur senza rendersene conto gli aveva reso? Con quali parole avrebbe mai potuto raccontargli di quel folle patto stretto tredici anni prima con Lucifero in persona, in quel postribolo, imbottito come un cuscino di hashish e vodka? Ma il lato migliore di tutta la faccenda era che esisteva una clausola benedetta, in quell’accordo diabolico: se il giorno stabilito – l’ultimo giorno, dopo tredici anni spesi ad appagare ogni vizio, a compiere impunito ogni peccato –  Fausto fosse riuscito a far sì che uno sconosciuto accettasse da lui in dono quell’orrendo medaglione, la sua anima sarebbe stata affrancata, e il Diavolo si sarebbe presa quella del malcapitato… E ce l’aveva fatta!!!

Continuò a ridere, e a tossire, e il gemito del vento si unì alla sua scellerata allegria ululando lungo il vicolo e le strade a quell’ora deserte.

L’ometto, nel frattempo, aveva ritrovato il proprio cappello, volato a infilarsi fra due bidoni della spazzatura. Ricompose un attimo il bavero malmesso del cappotto; poi rivolse un’occhiata strana a Fausto, e nonostante il vento riuscì a far giungere alle sue orecchie alcune semplici parole.

«Purtroppo per te, non è questo medaglione che mi interessa, lo sai. È ben altro che son venuto a prendere, questa sera.»

Fausto smise immediatamente di ridere. In cielo esplose un tuono, o forse esplose soltanto dentro la sua testa. E mentre l’ometto gli si avvicinava cordiale tendendogli una mano – gli occhi ora rossi e guizzanti come piccole fiamme – Fausto cadde in ginocchio. Gli rimase appena il tempo per ascoltare l’ultimo straziante battito del proprio cuore. Poi, non poté fare altro che seguire in silenzio il suo tranquillo carnefice verso la casa del buio e del dolore.

[Prima pubblicazione: Mystero, set. 2002]