L’ESPERIMENTO DI SALO’

Antonio si riscosse, strappandosi ad un sogno che già non ricordava più. Gli riuscì di acciuffare giusto un paio di immagini strapazzate – sciami di siringhe che si tuffavano in una fornace, bocche urlanti contro un muro nero – poi tutto si dileguò dalla sua testa.

Nella stanza stagnava un buio profondissimo.

Ascoltò per qualche minuto il raschiare sordo del proprio respiro, aspettandosi di udire da un momento all’altro qualche altro suono – una voce, magari! – farsi spazio nella cappa di silenzio che lo sovrastava. Ma l’aria fetida, attraversando i suoi polmoni, produceva l’unico rumore che osasse aggirarsi nell’oscurità di quella cella d’ospedale. Sorrise – o forse immaginò solamente di farlo – all’idea di considerare ospedale quel labirintico bunker, quella truce parodia di clinica sotterranea in cui lo avevano rinchiuso e trasformato in cavia umana per i loro deliranti esperimenti.

Tutto scintillava e vibrava di efficienza e mondanità là fuori, a Salò e dintorni; e da quando Mussolini e la sua variegata compagnia avevano proclamato la nuova Repubblica, quanti guardavano con ammirazione quell’oasi sulle rive del Garda! Ma possibile che nessuno si fosse mai domandato cosa ci fosse sotto? Non in senso metaforico, ma sotto per davvero, negli scantinati, nei sotterranei di quelle fascinose ville, di quegli immacolati palazzi… Nessuno che avvertisse il puzzo di marcio che avvelenava le viscere di tutta quella magnificenza?

Si rese conto di essersi addormentato sul pavimento. Tirandosi in piedi, sentì le giunture protestare con una serie di secchi scricchiolii. Azzardò alcuni passi, sostenendosi contro la sbarra metallica in fondo ai piedi del letto, e attese che il sangue riprendesse a circolare lungo le gambe prima di muoversi attraverso la stanza.

I suoi due compagni di sventura dovevano essere sempre lì, distesi nei rispettivi letti; ma ormai lo avevano abbandonato da un pezzo. Da quando, per la precisione? Non era in grado di stabilirlo. Dal momento in cui l’unica lampadina penzolante dal soffitto si era fulminata e nessuno si era ancora fatto vivo per cambiarla, il buio e il silenzio parevano essersi impossessati del mondo intero, offuscando ogni possibilità di valutare correttamente il trascorrere del tempo.

Antonio aveva tenuto un diario, fintanto che gli era stato possibile scrivere. L’ultima pagina su cui stava scrivendo, gli pareva di ricordare, portava una data dell’aprile 1945. E le ultime furiose parole scarabocchiate con un mozzicone di lapis erano dedicate al dottor Zachariae, al dottor Hunnermann e a tutti i loro perversi discepoli, perduti com’erano nel limbo dorato di una pazzia pseudoscientifica. Il siero dell’immortalità!… Che la terra li inghiottisse! Quanti disgraziati avevano ridotto a topi di laboratorio, iniettando loro in corpo le porcherie che ogni giorno uscivano da luridi alambicchi? Quanti cadaveri avevano gettato a putrefarsi in angoli dimenticati, quanti omicidi avevano compiuto in nome di una ricerca insensata, quanta morte avevano seminato, là sotto, mentre lassù marce trionfali, luci e fanfare ingannavano il mondo?

Invischiato nelle sue meditazioni, Antonio si portò a fianco del letto di Ivo, e istintivamente allungò le mani sopra la polverosa coperta per accertarsi che il vecchio amico fosse ancora lì, che nulla fosse cambiato mentre lui dormiva.

Nulla di nuovo, come previsto.

Ogni cosa era immutata. Il corpo di Ivo crepitò debolmente sotto le sue dita, in uno sgretoloso incrinarsi d’ossa. Antonio lasciò che la propria mano azzardasse una fraterna carezza alla testa poggiata sul guanciale, e sentì le lacrime salirgli agli occhi al contatto con quella pelle incartapecorita. Poco più in là, nella tenebra, anche i resti di Rino testimoniavano muti la cieca follia dei loro aguzzini. Ma cosa speravano di ottenere? Quale scopo avevano, nell’inseguire il miraggio di una vita eterna? Cosa avrebbero mai potuto perpetrare, ai danni dell’umanità intera, se fossero riusciti anche solo ad avvicinarsi al loro demente risultato?

Presto anche lui avrebbe seguito i suoi compagni, lo sapeva. I rivoltanti, inutili liquidi che scorrevano nelle sue vene lo avrebbero consumato, a poco a poco, e si sarebbe trovato protagonista di quelle obbrobriose scene d’agonia cui era stato costretto ad assistere…

Mentre sopra di lui – là fuori, una decina di metri più in alto – uomini, donne, bambini di Salò, Gardone, Toscolano e dintorni si godevano il sole del terzo millennio, Antonio tornò ad accucciarsi contro una parete, immerso senza speranza nel buio e nel silenzio, perduto nell’illusione di respirare un’aria che non c’era. Quelli che lo avevano rinchiuso là sotto, ormai da anni travolti dalla guerra, sconfitti dalla Storia, non avrebbero mai potuto gioire per il favoloso successo del loro esperimento.

E lui è ancora laggiù, inebetito, ignaro, ad aspettare la morte. Che non arriverà.

[Prima pubblicazione: LA FIERA DELLA PAURA, ed. Mondo Ignoto 2004]