QUELLI DELLA SAL.PO.

La donna incollò l’occhio allo spioncino per controllare chi avesse appena suonato il campanello. La piccola lente deformante le propose l’immagine di due uomini dall’aria distinta, in giacca e cravatta: uno alto e calvo, l’altro un po’ più basso, tarchiato, con capelli a spazzola e folti baffi neri. Entrambi avevano con sé una ventiquattrore.

«Chi siete?» domandò, con una voce stridula che quasi perforò il legno della porta.

«Siamo quelli della Sal.Po., signora. Veniamo per le sue poesie».

Quell’ultima parola bastò a cancellare con un colpo di cimosa ogni riserva e ogni prudenza dalla lavagna mentale della donna, che pur non essendo più nel fiore degli anni, e nonostante vivesse sola, non esitò a far scattare la serratura e a dare il suo chiocciante benvenuto ai due sconosciuti.

«Buongiorno» esordì il calvo con un sorriso, «è lei la signora Maria Gisella Schivazappa Serbelloni?»

La donna si portò d’istinto una mano alla permanente. «In persona!» esclamò. Le labbra scarlatte, il fard arancione e le ciglia nerissime davano al suo volto tondo e rugoso l’aspetto di una maschera epifanica, e quando sorrise la pelle della gola si tese mutandosi in una cetra male in arnese.

«Ottimo» riprese il giovane, col tono gioviale che si assocerebbe al più navigato venditore porta-a-porta. «Come le ho detto, rappresentiamo la Sal.Po. Ci conosce?»

Il sorrisetto della donna vacillò. Forse accarezzò per un istante l’idea di mentire, ma per tema di essere poi presa in castagna rispose, con una punta di rammarico: «Mi spiace, temo proprio…»

«È un’associazione culturale istituita per la Salvaguardia della Poesia, e avendo letto le sue opere siamo venuti a fare la sua conoscenza. Possiamo entrare?»

La donna tornò a rilassarsi, raggiante. «Ma sicuro, entrate, ci mancherebbe!»

I due varcarono la soglia, guardandosi attorno con aria svagata.

«Da questa parte, prego!»

Una volta accompagnati in salotto, i due uomini vennero fatti accomodare su un lezioso divanetto fiorato; la padrona di casa si sedette invece a schiena dritta su una poltrona di fronte a loro, dietro un basso tavolino di mogano.

«Posso offrirvi una tazza di tè, signori?»

«No, no, la ringraziamo, signora» rispose il calvo, che nel frattempo aveva posato la valigetta sulle ginocchia, così come il suo silenzioso compare. «Non abbiamo molto tempo, e gradiremmo venire subito al sodo. Dunque…» Con un sonoro doppio clic aprì la ventiquattrore e ne estrasse un plico di fotocopie. Gli occhi della signora Schivazappa Serbelloni si illuminarono.

«Questi sono tutti lavori che lei ha inviato alla redazione di un noto periodico locale nell’arco di un paio d’anni, lavori che le sono stati pubblicati solo in minima parte.»

«Già» commentò la donna, con un pizzico di acredine. «E non capisco cosa aspettino a…»

«E sappiamo anche» continuò il visitatore, come se la donna non avesse parlato, «che lei telefona alla redazione con una frequenza a dir poco inquietante, per sapere quando pubblicheranno tutto il materiale che lei ha inviato, e che continua a inviare. È vero, questo?»

Lo smagliante sorriso della donna si appannò, come un vetro freddo sul quale qualcuno avesse alitato. «Be’, direi che sarebbe giusto, doveroso, riconoscere a una poetessa del mio calibro la dovuta visibilità, non credete anche voi?»

I due si guardarono l’un l’altro, annuendo seri, quindi il calvo riprese la parola, scorrendo il mazzo di fogli che stringeva fra le mani: «Allora, vediamo un po’ che cos’abbiamo qui… oh sole, tu che brilli nel cielo… nuvole soffici come cotone… l’aria frizzantina del mattino… acqua chiara che scorri serena…»

«E con questo?» domandò la donna, in tono leggermente allarmato.

«Aspetti, mi lasci continuare, per cortesia. Ecco qua… i dolci ricordi che fan gioire il cuore… i palpiti dell’amore… rime baciate come se piovesse…»

Mentre quello parlava, il baffuto al suo fianco faticava a dissimulare espressioni contrariate, quasi schifate.

«Mi volete spiegare, signori…»

Il calvo fissò la donna negli occhi, sbattendo con malagrazia il malloppo di fogli sul fondo della valigetta spalancata. «Certo, le spieghiamo subito. Succede che lei è responsabile di centinaia fra le più inutili pagine di poesia, o presunta tale, che mai si siano scritte e lette, quindi la redazione che lei sta tartassando ci ha contattati pregandoci di intervenire. E siccome preservare e salvaguardare la poesia è la sacra missione della Sal.Po., non possiamo permettere che lei continui a sfornare roba di questo tenore!»

Il volto della Schivazappa Serbelloni si fece di colpo purpureo, e un inconsulto, indignatissimo balbettio le fece vibrare le labbra. «Come… come ha detto?»

L’uomo proseguì senza particolari inflessioni. «Ci siamo documentati su di lei, signora, prima di prendere la nostra decisione. Lei ha pubblicato, naturalmente a sue spese, la bellezza di ben quattordici sillogi poetiche, una più brutta dell’altra. Per non contare le ulteriori composizioni… sessantaquattro, per la precisione… con le quali da anni sta infestando il panorama letterario locale. Ha mai letto Emily Dickinson, signora?»

La padrona di casa, fremente di sdegno, riuscì appena a biascicare: «Chi?»

«Ecco, appunto» commentò il rappresentante della Sal.Po. «Lo sa cosa diceva? ‘Se leggo un libro che mi gela tutta, così che nessun fuoco possa scaldarmi, so che quella è poesia.’ Noi invece abbiamo un nostro metodo, più spicciativo ma efficace. Ci domandiamo: ‘Rileggerei volentieri questa poesia?’ Nel caso delle sue opere, signora, la risposta è, invariabilmente: ‘Nemmeno se mi fucilassero.’ Ed è in ragione di queste considerazioni, quindi, che ci vediamo costretti a compiere il nostro dovere».

Detto ciò indirizzò un cenno col capo al collega, il quale – impassibile – aprì la propria valigetta e prese a estrarne alcuni oggetti che posò in bell’ordine sul tavolino di fronte a sé: un flacone di disinfettante, un rotolo di garza, una confezione di cotone idrofilo, un piccolo tagliere da cucina in legno con decorazioni tirolesi dipinte a mano.

Gli occhi della Serbelloni si gonfiarono come palline da ping pong. «E… questa roba… cosa sarebbe?»

«Lei non si deve preoccupare di nulla, signora» intervenne il calvo. «Saremo rapidi, e ripuliremo tutto, garantito. Lei è destrorsa o mancina?»

«Cosa…?»

«Destrorsa o mancina?»

La donna rimase per qualche istante a bocca spalancata, poi sussurrò: «Destrorsa».

«Benissimo. Allora appoggi qua sopra la mano destra… ecco, così… da brava…»

A quel punto, il baffuto si alzò in piedi e si portò di fianco alla poetessa. Nel pugno stringeva il manico in plastica nera di un ultimo oggetto estratto dalla valigetta. Una piccola mannaia, sulla cui lama lucidissima si specchiò il volto annichilito e incredulo della Serbelloni. E con una collaudata azione di squadra, i due portarono con efficienza a compimento la loro missione.

Gli archivi della Sal.Po possono a tutt’oggi vantare la bellezza di ventuno mani destre e cinque sinistre, tutte accuratamente etichettate e catalogate. Numero che comunque è destinato a salire, naturalmente.

[Prima pubblicazione: L’Ippogrifo 1/2017]