MOSCA CIECA

Essere in servizio la notte di Natale era già di per sé motivo di forte irritazione. Venire spediti d’urgenza a casa Dal Bonis perché i vicini avevano udito il solito trambusto e le solite grida, poi, era un giro di vite davvero insostenibile.

«L’anno prossimo rinuncio volentieri al Capodanno,» bofonchiò Rollo tirando con foga il freno a mano. «Ma giuro che il Natale me lo passo in pantofole!»

 «Come ha detto?» De Vito eraancora giovane, e scese dalla volante con molta più baldanza del necessario.

«Niente, ragazzo. Pensavo con la bocca.» E, credimi, i miei pensieri non sono esattamente natalizi…

Silenziose pennellate di luce blu intermittente tinsero le loro schiene mentre imboccavano il vialetto ghiaiato verso la porta d’ingresso di casa Dal Bonis. Dall’abitazione a fianco, sagome furtive sbirciavano dietro tendine decorate.

«Sì, sì,» disse rivolto a loro Rollo digrignando i denti, sapendo che non avrebbero potuto sentirlo. «Abbiamo ricevuto la vostra cortese segnalazione. Grazie, grazie infinite. Ora potete dormire sonni sereni. Accidenti a voi.»

De Vito lo guardò di sottecchi, ma preferì non aprir bocca. L’umore del collega era più scuro del cielo, sul quale almeno brillavano serene le stelle.

Giunti alla porta, Rollofece cenno di attendere prima di suonare. Alcune voci vibravano all’interno: voci giocose, per nulla alterate. Qualcuno stava anche cantando, o così pareva. Il chiarore del salotto si srotolava tranquillo sull’erba grigiastra del giardino, fino a quel giorno graziato dalla neve. Un lembo di tenda era appena scostato, per cui istinto ed esperienza insegnavano che una sbirciata preliminare sarebbe stata più che saggia, prima di esporsi.

La scena che Rollo e De Vito riuscirono a carpire li lasciò in un primo tempo perplessi. Ma nulla di male, se gli anziani coniugi Dal Bonis stavano giocando con Dario, loro unico e sfortunato figliolo. Alcune sedie erano rovesciate, e anche qualche piatto aveva fatto una fine ingrata. Videro la signora passare accanto al tavolo con un tovagliolo rosso legato a mo’ di benda davanti agli occhi, le braccia tese in avanti, un gran sorriso tirato attraverso il volto smunto. Dario, ridendo e berciando parole che dall’esterno risultavano incomprensibili, scartò di fianco a lei, cercando di non farsi prendere.

Si percepiva pure la voce del signor Dal Bonis, da qualche parte: stava intonando una nenia, o qualcosa di simile. Le variopinte lucette dell’albero di Natale, prudentemente rintanato in un cantuccio, sembravano inscenare una rozza coreografia assieme al lampeggiante blu ai bordi della strada.

«Suoniamo, capo?» chiese esitante De Vito.

Rollo lo fissò in cagnesco. Ma certo, suoniamo, gli sarebbe piaciuto rispondere. Io il contrabbasso e tu la pianola, come Stanlio e Ollio, e vediamo se ci riesce di racimolare qualche spicciolo. Invece, si limitò a indirizzargli col capo un cenno secco che stava a indicare: Vai, sbrighiamoci, e diamoci un taglio!

Conoscevano bene il poveroDario. Aveva trentaquattro anni, ma la lancetta del suo cervello si era bloccata sul cinque o giù di lì. Ma non era pericoloso. Chiasso e scenate erano così comuni, in casa Dal Bonis, che ormai la polizia aveva smesso di dare peso a quel genere di segnalazioni. Ma, che diamine, era Natale! E – soprattutto – il sindaco era in odore di rielezione, no? E quindi, agente Rollo e agente De Vito: pedalare! Misericordia, che mondo!…

Fu Dario stesso ad aprire laporta. Era un marcantonio che si avvicinava al quintale, ma sul suo viso brillava il sorriso angelico di un bambinetto.

«Buon Natale, agenti! Siete venuti a giocare a mosca cieca con noi?»

Rollo tenne la bocca ben serrata, per non lasciarsi sfuggire qualche commento poco ortodosso. Salutò portandosi due dita alla visiera, e seguito da De Vito si infilò in casa. Ciò che videro sarebbe poi diventato, per entrambi, un incubo ricorrente.

Il padre di Dario, bendato pure lui, se ne stava carponi ai piedi delle scale, muovendosi avanti e indietro come un animale in gabbia. Dalla sua gola usciva una roca cantilena, modulata su toni grevi che raggiungevano repentini uno sgradevole falsetto. Ma non si trattava di una cantilena. Era un lamento.

Una pianta ornamentale si rovesciò con uno schianto improvviso, e sopra di essa rovinò l’anziana signora Dal Bonis. Anche la sua era un’ingannevole apparenza. Il sorriso non era un sorriso, ma una smorfia di dolore, una contrazione muscolare dovuta a uno stato di palese sofferenza. Ma c’era dell’altro, sul suo viso. Qualcosa di scuro, che colava…

«Su, giocate anche voi assieme a mamma e papà!» cinguettò Dario. «Ci stiamo divertendo come matti!»

Infelice scelta di vocabolo, ragazzo, riflettè Rollo.

De Vito, intanto, stava blaterando qualcosa a proposito dei tovaglioli-benda e del sangue, ma lui non lo stava ascoltando. Aveva già capito come stavano le cose, aveva già visto tutto ciò che c’era da vedere. Quello sarebbe stato l’ultimo Natale che Dario avrebbe trascorso in quella casa. Forse non gli avrebbero mai infilato una camicia dalle maniche allacciate strette sulla schiena, ma Dio solo sapeva se non sarebbe stato un indossatore perfetto per quel modello.

Il padre uggiolava, ora steso sul pavimento; la madre ansimava, gracchiando incomprensibili preghiere in mezzo ai cocci del vaso in terracotta; e Dario saltellava attorno alla tavola (tovaglia, piatti e tutto il resto erano sparpagliati un po’ dappertutto) strillando: «Prendetemi! Sono qua! Su, prendetemi!»

Rollo estrasse il cellulare, e in tono incolore chiese immediati rinforzi dalla centrale. Poi, rivolto all’attonito collega:

«Dammi una mano a liberarli dalle bende.»

E così fecero, imbrattandosi del sangue che zampillava da sotto quei tovaglioli divenuti rossi, il colore del Natale, ma che in origine dovevano essere bianchi.

Dario appariva eccitatissimo. «Prendetemi! Dai, non volete giocare?»

«Cristo Santo! Ma dove sono finiti i loro occhi?!» La voce di De Vito era incrinata, sull’orlo del pianto. «Glieli ha tolti! Gli ha tolto gli occhi!… Ma dove…?»

Poi, d’improvviso, l’istinto gli impose di voltarsi, e le sue vene si riempirono di ghiaccio.

Dai rametti del piccolo abete, lucine gialle e rosse lampeggiavano canzonatorie in mezzo a palline di plastica colorata, a finte candeline, ad angioletti di cartone, e a qualcos’altro.

«Ti prego, non metterti a urlare,» gli chiese Rollo, impassibile. È una sensazione davvero orribile, sentirsi osservati da un albero di Natale…

[Prima pubblicazione: Mystero, dic. 2001]