“Da piccola odiavo le bambole”

L’artista in copertina nel nuovo numero cartaceo de l’Ippogrifo (dicembre 2018).

Mirella Guidetti Giacomelli

di Eleonora Rossi

«Da piccola odiavo le bambole. Giocavo solo con il fango»: in questo ricordo (quasi un aneddoto) è forse racchiuso il seme della vocazione artistica di Mirella Guidetti Giacomelli.

Un talento sbocciato quando Mirella aveva 38 anni, un marito e tre figlie ancora piccole: «Stavo aiutando una delle mie bambine a fare un compito con il Das: le mie mani modellarono un volto così espressivo che meravigliò tutti, a partire da me». Quell’incontro confidente e insospettato con la materia da plasmare era soltanto l’inizio, la miccia che accese in Mirella una «passione esagerata, un impulso irrefrenabile, mai provato». Da quel momento l’artista – autodidatta – bruciò le tappe: «Lavoravo come una pazza, era più forte di me, era come avessi sempre fatto la scultrice».

Mirella da sempre crea ascoltando la musica classica – da Sibelius a Beethoven – assecondando il linguaggio dell’Infinito. «Che cos’è che guida le mie mani?», si interroga l’artista e dinanzi all’opera compiuta sperimenta un sentimento inusitato: «Lo stupore di vedere l’espressione su un volto appena scolpito», quasi fosse una creatura viva.

Lo stesso stupore che proviamo Edoardo Penoncini ed io, ospiti nella casa atelier di via XX Settembre 126/d, nell’ammirare i capolavori di Mirella: «Le sculture che vedete rappresentano la mia vita». Come ha osservato don Massimo Manservigi: «La casa di Mirella è specchio della sua anima, luogo del farsi della sua esistenza, tessuto dei momenti nodali che il tempo ha scolpito dentro i suoi occhi e giù, giù verso l’anima». Ogni angolo è un capitolo vissuto, raccontato con la poesia della materia, sia essa terracotta, creta, ceramica, legno; oppure immagine impressa nel corpo di una tela di canapa.

La maternità, l’inquietudine femminile, l’amore per la terra ferrarese e per il suo paesaggio; l’attrazione per la letteratura e la storia, per il passato e il presente della città, la Corte Estense, il Sacro. Il legame viscerale con la campagna: paesaggi di palude, aironi, mondine, un cavaliere avvolto misteriosamente nel suo tabarro; la contadina, che incarna la capacità di sopportazione e la dignità della donna dei campi.

Nelle sculture, soprattutto nelle icone femminili, c’è una forte intensità, come nella donna prostrata che sale, trascinandosi esanime, lungo la spirale di una scala, attorcigliata ed estenuante, proprio come l’esistenza: «Ho rappresentato la fatica di arrivare in cima».

Fatica che l’artista non nega, perché è parte intrinseca dei suoi giorni («Mi sono serviti coraggio e tenacia per tenere unita la famiglia, la mia priorità, e dedicarmi alla mia passione»), ma che può essere raccontata e sublimata nell’arte.

Ne è prova la serie di Ventagli, dedicati alla madre: mezzelune leggiadre che non vogliono essere simbolo di vanità, ma che cercano di nascondere, dietro il pavese, quella fatica che appartiene in particolare al mondo femminile. Sui ventagli Mirella ha dipinto L’amor che move il sole e l’altre stelle (Dante, Paradiso XXXIII, 145), per raccontare il motore dell’Universo in ogni sua manifestazione umana e divina.

Disseminate in ogni stanza, dall’ingresso fino al prezioso atelier nel semiterrato, ci sono poi Le grate. Protagoniste dell’omonimo Ciclo, le grate segnano il confine tra interno e esterno, tra chiuso e aperto, tra realtà e fantasia, tra vita e sogno. «I personaggi famosi si mostrano da dietro una grata e al contempo si nascondono dietro di quella – spiega Gina Nalini Montanari -; nell’ambiguità del gioco la nostra artista vuole alludere alla riservatezza: un aspetto della ‘ferraresità’ che discende da lunga tradizione e tuttora si avverte: nella città si vive entro dimore nobiliari, palazzi signorili o case più modeste chiuse in se stesse che appena comunicano tra loro per similarità di appartenenza, quasi gli abitanti vivessero in una sorta di esclusione, di solitudine; persino i giardini privati si trovano all’interno delle case». Emblemi di una sicurezza che può diventare segregazione, prigionia, «le grate appartengono alla nostra cultura: Ferrara se ne sta in disparte a guardare – sottolinea Mirella Guidetti Giacomelli -. Le grate in qualche modo parlano anche di me: la mia indole è solitaria».

Dalle opere d’arte al giardino – respiro verde a pochi passi dal Museo di Spina – dagli oggetti da collezione al gioiello di una farmacia originale del Settecento, la casa di Mirella è dimora di bellezza, di equilibrio, di ricercatezza: di armonia catturata nell’attimo creativo.

La bellezza di una donna che ha saputo trovare se stessa nell’arte.

Mirella (www.mirellaguidettigiacomelli) inizia la sua attività di scultrice nel 1975: ha al suo attivo prestigiose mostre personali in istituti di cultura e gallerie d’arte in Italia e all’estero, dove ha ottenuto lusinghieri consensi. Numerose le sculture che figurano in musei, chiese e spazi pubblici; da anni l’artista si dedica all’illustrazione di volumi di alto livello letterario e saggistico. Strettamente collegata all’attività scultorea è quella di medaglista, con produzioni per Vaticano, università, associazioni, enti pubblici e comuni.

Non entriamo nel merito della carriera brillante della nostra socia, rimandiamo piuttosto alla Biografia e agli studi sull’arte di Mirella Guidetti Giacomelli, curati negli anni, con accuratezza e profonda sensibilità, dalla cara Gina Nalini Montanari1. Preferiamo raccontare qui l’incontro – autentico e intenso – con l’artista e con la persona, che celebriamo con un’immagine scelta per la copertina di questo numero de l’Ippogrifo.

Si tratta di un particolare dei bozzetti degli Scacchi, opera magnifica.

«Gli scacchi sono un gioco in cui è impossibile barare – spiega Mirella -. La competizione è ad armi pari. Servono volontà, concentrazione, strategia. In una partita così deve vincere il migliore».

Gli Scacchi, scrive ancora Manservigi, sono «una risposta forte, provocatoria e reattiva, ad un mondo in cui l’artista non riconosceva più le buone regole e i giusti equilibri. Con essi voleva ribadire che ogni persona gioca un ruolo, combatte la propria battaglia».

Mirella ha donato i suoi guerrieri – trentadue figure colossali, alte tre metri – all’ospedale di Rovigo, perché potessero diventare «simbolo di difesa dell’autenticamente umano dentro uno spazio abitato da miracoli viventi che ogni giorno lottano per la vita, per la salute, per il senso ultimo». «Nella finzione ludica – evidenzia Gina Nalini Montanari – [l’artista] ideava una competizione senza tempo in cui si mettono in campo valori intangibili, sorretti da senso di responsabilità, da principi di ordine e razionalità, quali, nella tensione etica della scultrice, dovrebbero innervare l’esperienza del vivere quotidiano».

Confida Mirella: «Dopo quasi quattro anni di lavoro, rimirando i miei Scacchi, l’opera compiuta, ho pensato per un attimo: “Adesso posso anche morire”».

Quella scacchiera – trasposizione orizzontale di una grata, nel dualismo di pieni e di vuoti, di opposti che convivono e si bilanciano – è limbo metafisico: spazio sospeso ove si gioca la Vita.

1G. Nalini Montanari, L’anima di un’artista. Mirella Guidetti Giacomelli, Faust Edizioni

G. Nalini Montanari (a cura di), Mirella Guidetti Giacomelli: arte senza confini, Faust Edizioni

G. Nalini Montanari, Gli Scacchi di Mirella Guidetti Giacomelli, Faust Edizioni