Con la Paura Affonda la Società Civile.

Straße der Erinnerung – Berlin

È una fredda sera berlinese. Dall’affollatissima Ku’Damm mi incammino insieme alla psicoterapeuta Christiane Schmitt alla presentazione dell’ultimo libro di due scrittori, Maylis de Kerangal e Davide Camarrone: «Lampedusa, un Memoriale del Mediterraneo». In questa serata i due autori – introdotti dalla giornalista Maike Albath – parleranno di «un luogo non-luogo», come loro stessi definiscono l’isola tra la Tunisia e la Sicilia. Un simbolo delle nuova frontiera tra due mondi ricco di significati e di spunti di riflessione per il futuro del nostro continente.

Al nostro arrivo l’atmosfera è piacevole, la gente sorride rilassata al caldo e al sicuro tra le pareti dell’edificio in stile neo-classico del Literatur Haus nel cuore della Berlino benestante, cuore commerciale e mondano del distretto di Charlottenburg.

«Il paesaggio è l’immagine che resta nella mente, una volta che ci si ferma a riflettere».

«Cos’è per voi il paesaggio?», chiede qualcuno dal pubblico. Il giornalista Davide Camarrone, con un gesto della mano e uno sguardo complice, invita a rispondere la collega, la scrittrice e sceneggiatrice Maylis de Kerangal: «Il paesaggio è l’immagine che resta nella mente, una volta che ci si ferma a riflettere».

C’è stato un tempo in cui pochi sapevano dove fosse Lampedusa. Un luogo famoso ai più per un classico immortale della letteratura, Il Gattopardo, e per la biografia dell’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa o ancora come luogo di villeggiatura. Un’isola sicura, mondana, un paradiso per le immersioni e per le vacanze estive degli europei.

Oggi, proprio lì, si incrociano il destino e la paura. L’isola è divenuta in questi anni l’emblema dell’impotenza.

Con i saluti e una breve introduzione agli autori da parte di Maike Albath, volto noto della Berlino letteraria, entriamo nel cuore della serata. Sul palco sale la giovane dipendente di un’associazione fondata nel 2015. Racconta la propria esperienza di lavoro introducendo i presenti in un viaggio, che inizia al margine estremo del nostro continente, proprio dall’isola italiana. Lampaduza, il cui nome è al confine tra l’arabo e il dialetto locale, è oggi crocevia tra la pace e la guerra. Baciata dal sole d’Italia e al contempo ricoperta da lunghe ombre di morte.


Oggi, proprio lì, si incrociano il destino e la paura. L’isola è divenuta in questi anni l’emblema dell’impotenza.

Quindi si inizia con «7 Giorni» della giornalista Nadia Kailouli: un rapporto sui rifugiati e la migrazione. Tra il 2010 e il 2014 sono decedute migliaia di persone in quelle acque. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati comunica, che solo nel 2015, 3.700 persone sono morte mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo.

Il documentario mostra numerose interviste. Zen, nativo dell’Eritrea, è fuggito nel 2007 per evitare il reclutamento forzato e la guerra. Faceva il fotografo. Ha dovuto abbandonare la sua vita, gli amici, la famiglia senza nessuna possibilità di ritorno.

In Libia vive il peggiore dei suoi incubi. «Ho avuto paura per tutta la vita», confida. In molti paesi dell’Africa, dell’Asia Centrale, in Medio Oriente, sopravvivere significa avere paura: «Sono stato cinque mesi in prigione! Cinque mesi di sofferenza e tortura rinchiuso in una gabbia! Senza soldi, da lì non si esce. C’erano circa trecento persone in ogni stanza. Ogni giorno arrivava qualcuno portando tozzi di pane, non di più. Ci colpivano violentemente alla testa, a volte sparavano sulle persone! Uccidevano se ne avevano voglia! È per questo, che ho deciso di seguire questa strada. Anche se io non so nuotare, sono saltato su una barca. Preferivo morire in mare, che pensare di restare in Libia! Non avevamo fatto nulla, ma i libici non volevano africani neri per strada! Questione di ordine pubblico, dicevano…».

Al termine del filmato la serata cambia volto e si fa più seria. La volontaria del team di SOS Mediterranee di Berlino racconta l’origine loro progetto, nato dall’idea di un capitano di nave mercantile e da un’antropologa. L’associazione si propone di finanziare il salvataggio dei migranti nel Mediterraneo.

Il fondatore, il capitano Klaus Vögel, descrive i primi passi: «Per noi la fase iniziale, dall’avvio del progetto fino al momento in cui siamo stati in grado di inviare la nave, è stata molto complicata, talvolta sconfortante… Novembre 2014 infatti è stato il mese in cui l’Europa ha deciso ufficialmente di non finanziare più alcun salvataggio».

Durante la proiezione del nuovo filmato viene spiegato che i governi europei non hanno saputo accordarsi in tempo per continuare il progetto di soccorso italiano Mare Nostrum: l’operazione, iniziata un anno prima, era costata la cifra enorme di nove milioni di euro al mese. Senza l’aiuto degli altri paesi dell’Unione Europea non poteva più essere finanziata. L’Italia ha chiesto quindi ufficialmente se il governo EU potesse partecipare. La domanda è stata respinta. «Quello che mi ha scioccato in quel momento non è stata tanto la mancanza di decisione del governo di Bruxelles, quanto il silenzio di tutti noi! Il silenzio della società civile, nessuna indignazione».

«Non esistono paure grandi o piccole, importanti o meno importanti. Esiste solo la paura».

Il 3 ottobre 2013 un’imbarcazione affonda di fronte alla città libica di Misrata. Quasi 550 rifugiati da Somalia e Eritrea sono a bordo della nave. Centinaia di bambini, donne e uomini scompaiono in pochi secondi ingoiati dal mare al largo di Lampedusa. Camarrone ne fa un descrizione dettagliata nel suo libro. Le immagini dei morti recuperati sulle spiagge dell’isola sono andate in onda in tutto il mondo per giorni. Tutti noi siamo stati spettatori di una catastrofe morale e politica che non ha precedenti negli ultimi 80 anni di storia europea. Lampedusa, da luogo di vacanza diviene realtà di frontiera. La questione dei rifugiati polarizza la società e agisce da catalizzatore delle paure dei nostri paesi in tutto quanto il continente.

I cittadini constatano per la prima volta, dopo un lungo periodo di prosperità e di pace, quanto la vita possa diventare precaria e imprevedibile. Questo disturba e fa sempre più paura.

Christiane Schmitt, che mi accompagna in questa serata berlinese, è psicologa presso la Praxis Dr. Lust, laboratorio specializzato in neurologia, psichiatria e psicoterapia. Mi spiega a tal proposito uno dei concetti alla base del suo lavoro: «La paura, anche restando un concetto in parte soggettivo, va sempre presa molto sul serio. È necessario fornire al paziente contro-argomentazioni e recuperare un senso di sicurezza e stabilità. Non esistono paure grandi o piccole, importanti o meno importanti. Esiste solo la paura. In questi casi parliamo di un meccanismo della mente, che protegge da confronti sgradevoli. È una misura d’emergenza, che ci porta al risultato più immediato di sicurezza per la nostra salute.

Ogni giorno ci confrontiamo con i nostri timori e con l’ansia: succede di notte quando camminiamo da soli per le strade ad esempio, così come in situazioni più complesse, quando ci troviamo di fronte all’autorità o a situazioni che mutano le nostre esigenze in programma o in statistiche, senza ascoltare il nostro punto di vista. In questi casi la via più facile è il rifiuto.

La paura funziona sempre allo stesso modo: a lungo repressa poi esplode incontrollata.

La paura funziona sempre allo stesso modo: a lungo repressa poi esplode incontrollata. Si cerca nell’immediato di evitare il problema, di non vedere, e questo va naturalmente a discapito di una soluzione più a lungo termine (o definitiva) del nostro stato. Non necessariamente la paura domina persone in modo patologico, funziona nella stessa medesima maniera anche su persone sane».

Qualcosa di simile è accaduto quando Anja Reschke, nota giornalista tedesca che durante un commento televisivo ha preso una posizione decisa contro la xenofobia crescente in Germania e in favore di politiche di integrazione e accoglienza. Il video-commento di Panorama, in onda in prima serata sul canale nazionale Das Erste, è diventato virale in poche ore ed ha generato un’enorme reazione emotiva, caratterizzata da odio e disprezzo da un lato e da approvazione dall’altro, su tutti i social network. Il giorno seguente, Reschke ha spiegato il suo appello in un’intervista: «Dopo tutte le critiche negative sui rifugiati volevo capire se le persone fossero ancora dalla parte giusta»

I commenti a favore sulle pagine internet di Tageschau e di Panorama erano stati migliaia e tuttavia – la giornalista ne era sicura –, il servizio aveva ricevuto anche una cifra spropositata di offese, essenzialmente attacchi alla dignità della sua persona e della professionalità, per lo più ingiustificati e guidati dall’odio verso lo straniero: «Quelle che ho ricevuto erano minacce pure e semplici, senza alcun supporto di dati o spiegazioni di alcun tipo, senza alcuna obiettività».

La politica tace, perché siamo noi – i Cittadini -, a rimanere in silenzio. Perché una buona parte della popolazione del continente non vuol sentire parlare di questo tema, perché preferisce contare i morti, o addirittura tacere? Troppo complicato, troppo pericoloso per la bella vita del continente forse. Perché quindi, si ha così paura da chiudere occhi e orecchie a costo di vite umane, di fronte alla palese, ripetuta violazione dei diritti umani un poco ovunque, ai confini di casa nostra? Non si spiega se non con la paura. La guerra è ormai in tutto il mondo: Siria, Ucraina, Libia, Somalia, Eritrea e in forma di attacchi terroristici, anche in Europa.

Può succedere a chiunque di noi in qualsiasi momento di trovarsi nel mezzo di un attentato. Eppure la percentuale di rifugiati negli stati membri dell’Unione Europea resta sempre al di sotto dell’1%. «Portano terroristi, portano armi, portano violenza, malattie, virus». Tutto pur di, come si dice, aiutarli a casa loro. Senza sostegno dei popoli, nessuna politica è possibile. Attualmente le democrazie europee non sembrano essere in grado di trovare una vera e propria soluzione ai propri problemi.

«È nella via di fuga che ognuno di noi s’instrada direttamente a rivivere le proprie paure. Proprio attraverso questo rifiuto le realizza in modo perpetuo».

Dopo il film e le interviste, è prevista una pausa. Ci spostiamo nella sala adiacente, si beve vino, si chiacchiera e si riflette. Christiane Schmitt è turbata, riflessiva. «Ogni giorno ho pazienti in terapia per attacchi di panico, ansia, depressione o burn-out. È il male del nostro tempo. Il cammino verso la guarigione è per ognuno di loro un lento processo di presa di coscienza, che prima di tutto necessita di quiete. Il recupero della calma psico-fisica è fondamentale, è un momento topico della terapia.

Solo quando ritorna l’equilibrio razionale si possono rivedere le insicurezze che hanno causato il disagio. Quando ci si confronta con la paura, solo allora si può apprendere, che una data situazione o un oggetto sono innocui oppure gestibili. Il più delle volte è così. Che senza presa di coscienza e informazione il male peggiora». Pertanto l’ansia per una situazione incomoda non significa soltanto lamentarsi, ma rimanere attivi, essere curiosi e, come Christiane Schmitt ben mi descrive, fare attenzione: «È nella via di fuga che ognuno di noi s’instrada direttamente a rivivere le proprie paure. Proprio attraverso questo rifiuto le realizza in modo perpetuo».

Rientriamo tutti nella sala. Dopo le letture dei due scrittori a cornice di una serata tra realtà e letteratura, si giunge al finale. Durante il colloquio con gli autori, Maike Albath invita la giovane collaboratrice di SOS Mediterranee di nuovo sul palco. La lettura è diventata una conversazione in cui gli ospiti si sono scambiati informazioni sui possibili sviluppi attuali della politica europea. «Soprattutto i giovani elettori non sono disposti a lasciarsi sottrarre il proprio futuro in seno all’Unione Europea», spiega Andrea Camarrone. Alcuni studenti presenti in sala applaudono, rendono noto di essere inglesi. Sono i giorni della Brexit.

E infine il saluto del capitano Vögel al termine del documentario sull’associazione creata da lui: «I diritti umani. Valgono solo per i cittadini che camminano lungo le nostre strade o anche per quelle persone che annegano in mare aperto? Io credo che valgano per tutti quanti. È indispensabile cancellare il debito dei paesi in via di sviluppo in modo che possano costruire un mondo più giusto. Non sarebbe altro che un risarcimento per il passato coloniale e di decenni di politica strategico-militare dell’Occidente nelle loro terre».

Da l’Ippogrifo numero 3 – Un Ponte sull’Europa, giugno 2018 / Dario Deserri

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