CONFESSIONE DI UN MALEDETTO

 

«Mi chiamo Vincenzo Z., e questa lettera vuole essere, prima di tutto, una confessione. La terrò con me, ripiegata accanto al mio documento d’identità, dove l’avete trovata voi che state leggendo. E se state leggendo, significa che io sono già morto. Ormai è questione di giorni, ne sono sicuro.

Non volevo che accadesse, davvero. Non volevo fare quello che ho fatto. Ma non intendo perdere tempo a giustificarmi, dato che indietro non si torna e un assassino rimane comunque un assassino.

Non sapevo neppure come si chiamasse, né quanti anni avesse. L’ho letto il giorno dopo, sui giornali. Parlo del 7 settembre. Non farete fatica a capire di chi sto parlando. So soltanto che è stata lei a provocarmi, è stata lei ad attirarmi in quella stamberga! E se è vero che non aveva ancora compiuto diciotto anni, questo rimane un mero dato anagrafico: io vi dico che oltre a essere una donna, matura e vaccinata, era una carogna, una ladra, e non vado oltre. Non uso parolacce, quando sono sobrio.

Era un metodo collaudato, quello di adescare uomini un po’ brilli all’uscita del bar, portarseli in quel tugurio di fianco all’accampamento nomade, e lì scucirgli perfino le fodere delle tasche! Be’, con me le è andata male.

Non ero brillo. Ero fradicio. E arrabbiato, ma proprio tanto. Quello che avevo vinto la sera prima a carte era stato sbranato quasi tutto da una di quelle macchinette mangiasoldi, e il resto era finito nel bicchiere. Insomma, chissà quanto sperava che avessi, nel portafogli, quella strega… Fatto sta che quando si è accorta di aver perso il suo tempo ha cominciato a graffiarmi, e dirmene di tutti i colori, a cercare di cacciarmi fuori da quella stanza puzzolente. E no, bellezza, le ho detto. Una signora non si comporta così con gli ospiti. Adesso ti perquisisco io…

Se non avesse opposto resistenza, tutto sarebbe filato liscio come l’olio. Invece sento ancora i morsi sulle mani. Non mi ha dato scelta. O meglio: avrei potuto scegliere, se non fossi stato tanto ubriaco, e tanto di malumore. Insomma, è andata come è andata.

Quando è tornato il silenzio, però, mi sono accorto che in quella stanza non eravamo soli, e per poco non mi è venuto un colpo. Non so se quel vecchio si trovasse già là, in quell’angolo in penombra, quando siamo arrivati, o se sia arrivato dopo. Sui giornali non si parlava di lui. Era decrepito. Stava su di una sedia a rotelle, e le sue mani tremolavano sui braccioli. Mi chiedo se fosse in grado di vedere, tanto i suoi occhi se ne stavano affossati dietro strati di pelle e rughe. Me lo sono trovato davanti all’improvviso, nel girarmi per lasciare quella topaia, e per qualche istante nessuno dei due ha aperto bocca. Credo fosse il nonno, o qualcosa del genere, e credo anche che fosse abituato a godersi gli spettacolini e a intascarsi la sua parte.

Stavo per andarmene, nauseato da tutto, quando ho sentito alcune parole scivolare attraverso quella gola avvizzita. Erano suoni davvero sgradevoli, e anche ciò che ha detto non era proprio divertente. Era qualcosa tipo: La tua condanna ti sarà scritta addosso. Non era una voce. Era un chiodo raschiato contro un muro. Da parte mia, gli ho detto una parola soltanto: Crepa! E me ne sono andato.

Sono trascorsi appena sette giorni, e ho capito che a crepare, invece, sarò io. Quello zingaro mi ha lanciato una maledizione. L’altra notte l’ho sognato, ed è stato un sogno orrendo. Mi sono svegliato col cuore in gola. Mi pareva di sentire ancora il suo respiro malato alle mie spalle, mentre con la punta di un coltello si divertiva a incidermi la schiena! Sono corso allo specchio, cercando di vedere se c’era non so neanch’io cosa, qualche ferita, qualche taglio. Ma non c’era niente da vedere. Non ancora, almeno. Ma ho paura. E mi sento ogni giorno più debole. Ho tremendi attacchi di emicrania, e mi accorgo che sollevare certi oggetti, o anche solo camminare, sta diventando una pena. Ogni tanto studio il mio corpo, ma senza trovare alcun segno. La maledizione mi sarà scritta addosso, ha detto. Ormai neppure la bottiglia riesce a darmi il conforto di un tempo. Ho davvero paura.

Questa mattina è cominciato il mal di denti…»

 

Vincenzo Z. è stato rinvenuto dalla polizia accanto a un tavolo e una sedia rovesciata, nel suo monolocale, in seguito alle segnalazioni dei condomini che non lo vedevano da quattro giorni. Il lezzo proveniente dalla fessura sotto la porta già non lasciava in effetti spazio alla speranza di trovarlo vivo.

Poco distante dalla sua posizione, scivolata per metà sotto un mobiletto, stava la lettera interrotta dalla morte.

Il corpo si trovava addossato a una parete, piegato scompostamente – quasi spezzato – a seguire l’angolo con il pavimento. Le gambe sono apparse subito articolate in maniera innaturale, fratturate in più punti; e al primo tentativo di sollevare il cadavere è risuonato sinistro lo schianto ovattato di una spalla.

La bocca spalancata in una maschera di agonia esibiva i denti, martoriati dalle strane piccole incisioni che parevano sgusciare da sotto le gengive. L’autopsia ha fatto emergere il resto. Le incisioni erano lettere, erano parole. L’intero scheletro, dal cranio alle costole, dal bacino alle falangi dei piedi, ne era ricoperto. Sembrava che qualcuno, assurdamente, avesse lavorato con pazienza infinita, armato di uno scalpellino, incidendo ora leggermente, ora con foga, non di rado indebolendo o spaccando le ossa su cui stava compiendo la sua impossibile vendetta.

La parola assassino – ha constatato il patologo legale – era scolpita più di cento volte.

 

[Prima pubblicazione: Mystero, set.2001]