OSSA DI LUPO

Ancora un paio di minuti, non di più, e il disco giallo della luna piena sarebbe emerso dalla scia di nuvole nere che stavano attraversando pesanti il cielo.

Giulio si scostò dalla finestra, tornando a rivolgere l’attenzione all’interno della casa. Un brano di musica da discoteca che pareva riscuotere gran successo fra i ragazzini presenti imperversava selvaggio, rimbombando fra luci variopinte, palloncini, vassoi colmi di paste, bottiglie di bibite e bicchieri di carta. Tutti quanti si agitavano, ridevano, o semplicemente chiacchieravano, mentre Ilaria, la festeggiata, scivolava regale da una stanza all’altra, illuminandosi dei suoi appena raggiunti, compiaciuti quindici anni. Giulio lanciò un’ennesima occhiata ansiosa oltre le tendine, verso il cielo. Ancora un poco e avrebbe dovuto entrare in azione.

Quanto li odiava, tutti, nessuno escluso! A cominciare da quella gallina di Ilaria, tanto bella quanto insopportabile, fino all’ultimo dei suoi compagni di classe: non se ne sarebbe salvato uno. Ognuno dei suoi 85 chili fremette per l’eccitazione. Avrebbero smesso una volta per tutte di chiamarlo ‘panzer’, o ‘bigbàbol’, o nella migliore delle ipotesi ‘barilotto’…

Il chiasso gioioso si era amalgamato, nella sua testa, in un confuso ronzio vociante. Labbra sporche di crema sorridevano ovunque, anche verso di lui; ma quelli erano sorrisi beffardi, che Giulio ricambiava con smorfie di circostanza sollevando in segno di brindisi il bicchiere colmo di aranciata che teneva in mano. Qualcuno – non si curò neppure di vedere chi – passandogli accanto gli affibbiò una pacca sulla spalla («Tutto bene, smilzo?») prima di scomparire nel tumulto festaiolo. Giulio bofonchiò una risposta incomprensibile, a metà strada fra un singhiozzo e una bestemmia. Faceva ancora più male, quando lo chiamavano ‘smilzo’.

Ma ora… la luna, la luna!

Le nubi stavano per togliere il disturbo. Un alone d’oro bianco incominciò ad imporsi, inesorabilmente, sopra le tenebre del mondo. E Giulio voltò stizzosamente la schiena ai festeggiamenti perchè nessuno notasse la curiosa sabbia grigio scura che da un barattolino nascosto in tasca scivolò maligna a diluirsi nel bicchiere d’aranciata. Ah, quell’ingrediente… Era stata un’impresa, procurarselo.

Il libro che gli aveva cambiato la vita si intitolava Superstizioni e riti magici nell’Europa medioevale. L’aveva trovato alla biblioteca comunale, nel settore ‘Letteratura esoterica’. Non rammentava il nome dell’autore, ma lo aveva benedetto: fra i tanti testi consultati, solo in quel tomo era riportata una formula – chiara, integrale, inequivocabile – per trasformarsi in lupo! E non si trattava di una cosa eccessivamente complessa, almeno non se messa a confronto con cento altre astrusità che aveva incontrato. Era un rituale adottato dai Thòlos, una setta di origini danesi ispirata all’imprescindibile legame fra Uomo e Animale che aveva lasciato di sé una quantità relativamente limitata di tracce a cavallo dell’anno Mille.

L’idea di ricorrere a una soluzione tanto drastica per ripagare i coetanei di tutte le angherie con cui lo bersagliavano da una vita si era installata nel suo cervello dopo la visione del film Un lupo mannaro americano a Londra, e lì era cresciuta, come un’erba cattiva. Gli unici impegni richiesti dal cerimoniale erano: digiunare due giorni prima del plenilunio, procacciarsi un pugno di ossa di lupo polverizzata, e mandare a memoria una formula abbastanza ostica da declamare al momento opportuno. A prescindere dal sacrificio rappresentato dal digiuno, la questione dell’osso di lupo era stata risolta con un accettabile escamotage. «Lupo o cane» si era detto Giulio, «siamo lì…». Per cui aveva attirato un pastore tedesco in una zona isolata, in aperta campagna, lo aveva battezzato a colpi di vanga, e con lo stesso attrezzo gli aveva tranciato una porzione di zampa. Questa era stata poi sottoposta a un trattamento a base di coltello (per ripulire l’osso) e martello (per tritare il tutto come da ricetta), e il risultato era stato raccolto in uno di quei cilindretti in plastica destinati alla custodia dei rullini fotografici. Il fatto poi che il compleanno di Ilaria coincidesse con il plenilunio rafforzò in lui la convinzione che a sostenere i suoi progetti vi fosse un preciso disegno divino.

Ecco, il momento tanto atteso, tanto sognato, era lì, a portata di mano! In tutto il suo splendore, il disco glorioso e pallido della luna piena si liberò dall’opprimente sudario di nubi e – silente ma inflessibile – gli intimò di procedere.

Giulio annaspò, il cuore compresso a scalciare contro pareti di muscoli e grasso. Mescolò maldestramente con un dito la polverina d’osso nell’aranciata, quindi ingurgitò d’un fiato il ributtante miscuglio, senza concedere spazio a ripensamenti. Aveva un sapore orrendo, ma importava poco. Bene, benissimo! Ora mancava soltanto la litania.

Concedendosi un ultimo sguardo complice all’ipnotico occhio lunare, prese a recitare ad alta voce la serie di prodigiosi vocaboli che non senza sforzi e innumerevoli prove era riuscito a memorizzare:

«Ay grahal te zym, ay khosph ur zhatymesh!»

Si girò lentamente verso i presenti (‘in direzione del nemico da colpire’, specificava il testo), sollevando le braccia al cielo.

«Garthoff synn te zym hoort!»

Dapprima, soltanto un paio di ragazzini si accorse di lui, ma presto la sua stravagante performancecatalizzò l’attenzione generale. Le casse dello stereo continuavano a starnazzare, le luci intermittenti scagliavano sopra i visi divertiti fuggevoli chiazze multicolori, e Giulio tuonava, in tono sempre più solenne:

«Ay schlehor flwgn gh’pthor!»

Qualcuno commentò a gran voce:

«Panzer, cos’è: non reggi nemmeno la Fanta?»

Un’esplosione di risate accolse la battuta, ma Giulio non udiva altro all’infuori della folle sequela di parole che continuava a fluire dalla sua gola. Ilaria era pietrificata, indignata, a ogni secondo più furiosa. Se quella palla di lardo pensava di poterle guastare la festa…

Ormai paonazzo, colto da un improvviso accesso di panico, Giulio si scontrò per una manciata di interminabili, agghiaccianti secondi con un ostacolo nella memoria.

«Gh’pthor…» si impuntò, attorniato da ragazzi e ragazze che lo contemplavano come se fosse un pagliaccio al circo.

«Gh’pthor ay…»

Fu probabilmente un’ondata di orgoglio a sbloccarlo, o forse gli spiriti dei Thòlos (convinto com’era che lo stessero supportando in quel gravoso momento).

«Gh’pthor ay taalr ur fhet’mor!»

E d’improvviso, finalmente, la trasformazione ebbe inizio.

Giulio strabuzzò gli occhi, la lingua penzoloni. Crollò carponi. Avrebbe dovuto provare almeno una parvenza di soddisfazione, invece…

Il dolore!

Un dolore così acuto, così lacerante… non lo aveva messo in preventivo. Forse era stato uno sprovveduto.

Adesso, tutti quanti strillavano o si allontanavano spingendosi gli uni gli altri. Ilaria si portò le mani alla bocca per non vomitare.

La pelle di Giulio, e sotto di essa tutto il suo corpo adiposo, cominciò a tendersi, ad allungarsi, raggiungendo in breve il livello di lacerazione di ogni tessuto. Un ventaglio di sangue investì in ogni direzione persone, tavoli imbanditi, festoni alle pareti. Strillando come un animale al macello, Giulio percepì il confuso scricchiolio del proprio scheletro, mentre ogni singolo osso si andava allungando, contraendo, deformando. Non ebbe modo di scoprire cosa non avesse funzionato. Conoscere il significato delle parole che aveva pronunciato sarebbe stato vitale. La memoria, su cui aveva fatto tanto affidamento, lo aveva tradito. Preso dalla foga e dall’emozione aveva omesso un passaggio, ‘rhyl te phnakoth assywl’dom’, che nel perduto idioma Thòlos stava per ‘e con esse il resto del corpo’. Inconsapevolmente, aveva pregato la luna di tramutare in lupo le sue ossa, ma soltanto quelle!

La fine fu rapida, e pietosa. Il cuore esplose sotto le costole alterate, e stessa sorte toccò al cervello, stritolato nella scatola cranica fattasi più piatta e allungata. Per Giulio rimase quindi soltanto il buio, senza alcuna luna a stemperare l’oscurità.

Quando i primi soccorritori adulti accorsero, trovarono lo scheletro di un grosso lupo disteso su un fianco, ancora malamente avviluppato nei brandelli carnosi di ciò che fino a pochi minuti prima era stato un corpo umano.

[Prima pubblicazione: Mystero, 2003]