L’UNICA FIERA FEROCE di Nicoletta Zucchini

L’UNICA FIERA FEROCE

(quinto episodio)

da La crosta e la mollica

di Nicoletta Zucchini

All’ombra di un oleandro in giardino, Ulisse, il gatto di casa, stava disteso su un fianco. Così immobile ed allungato sembrava morto. Sornione, socchiudeva un occhio al tubare di qualche tortora sulla grondaia, mentre un lieve tremore gli sfiorava il muso e i lunghi baffi fremevano nervosi nell’aria. Particolari impercettibili che tradivano la sua morte presunta.

Per ovviare all’afa incalzante, anche Cesarino si era messo all’ombra di una pianta, ma sotto un giuggiolo, il cui fogliame lucente ricadeva a ombrello, quasi a formare una grotta. Stava disteso a pancia in su con le mani sotto la nuca e a occhi socchiusi sbirciava da dietro la cortina verde il cielo azzurrognolo: neanche una nuvola!

Si annoiava, non c’era niente da fare: che rottura!

«Che noia maledetta! Almeno capitasse qualcosa» rimuginava fra sé.

Tutto era terribilmente immobile in quella mattina sconfinata: «Come si allunga all’infinito il tempo quando ci si annoia e non si desidera far niente» pensava fra sé Cesarino, che in quel giorno, proprio, non aveva voglia di fare nulla, neanche di andare a caccia per finta col suo schioppo di legno.

Tutte le volte che l’assaliva il desiderio d’avventura, caricava l’arma con gran cura, allungava adagio l’elastico e lo tirava fino a imprigionarlo alla molletta fissata sul calcio e poi via, pum! a schioppettare con soddisfazione. Si aggirava guardingo per il giardino, con un occhio chiuso ed uno aperto puntava per finta una preda immaginaria, poi si metteva in agguato dietro un cespuglio di pitosforo fino a quando faceva scattare il grilletto/molletta.

«Ti ho preso! Ti ho colpito brutta bestiaccia!» urlava nel silenzio. Chissà quale fiera feroce aveva steso nel cuore della giungla! Nonno Agostino, il suo vecchio amico, l’aveva aiutato a ricavare il micidiale propulsore da una vecchia camera d’aria di bicicletta, l’elastico ad ogni sparo fendeva l’aria con uno schiocco secco, poi penzolava dalla canna del fucile di legno e oscillava nel vuoto fino a quando non raggiungeva un nuovo stato di quiete.

Tra uno sparo e l’altro non succedeva nulla, ma quei pum! pum! fendendo l’aria all’improvviso, facevano scorrere il tempo in modo diverso, davano un ritmo a tutta quell’uniformità appiccicosa: il rumore degli spari metteva in fuga la noia, l’unica fiera feroce, che si aggirasse nei paraggi, se escludiamo il domestico Ulisse.

Dopo il pranzo veloce, tutto taceva da un bel po’, quando Cesarino si infilò i sandali in tasca, poi alla chetichella, scalzo, scappò dalla finestra della sua cameretta che dava sul tetto del garage, e senza far rumore, scese comodamente da una scaletta di legno che, in previsione della fuga pomeridiana, vi aveva in precedenza appoggiato. Costeggiò quatto, quatto la siepe lungo il vialetto dalla parte del prato e senza farsi vedere oltrepassò il cancello aperto e fu subito in strada. Camminava per la via come un saltapra, come una ranocchia, ora sull’asfalto bollente, ora sul ghiaino appuntito. Camminava a piedi nudi su diversi tipi di terreno, ma tutti ugualmente “scabrosi”, perciò continuamente metteva in atto nuove astuzie per evitare i tagli e i dolori più grossolani. L’esperienza costituiva una sorta di iniziazione autonoma, non priva di imprecazioni e di maledizioni di ogni sorta, ora in italiano, ora in dialetto. Ma quelle in dialetto, molto colorite, gli sembravano le più efficaci contro il dolore. Vi era in questa esperienza anche tutto il piacere della trasgressione, il piacere di scandalizzare i grandi nel fare una cosa da selvaggi. A mano, a mano che avanzava furtivo, la via si tramutava in una Death Valley.

death valley

I profili delle case in controluce con le masse scure delle facciate in ombra divenivano i contrafforti del Gran Canyon e i comignoli assumevano l’aria di vedette di tribù nemiche appostate in cima per un agguato improvviso.

Allora Cesarino aumentava la velocità dell’andatura: forse quella era l’ombra di un puma affamato sulle tracce di una preda! Entrato per gioco nel ruolo di guerriero pellerossa, alle mutate movenze del corpo seguivano docili e coerenti i pensieri nella sua testa: non si può mica imbrigliare la fantasia elastica di un bambino di questa età, solo perché fa caldo più del solito e tutti quelli che non sono obbligati a lavorare per necessità se ne stanno a casa, a poltrire e sbuffare contro un clima infame? I grandi condizionati dalle abitudini, esasperati dalle scalmane del tempo, non capiscono proprio come la fantasia dei bambini continui a zampillare più fresca che mai anche nelle ore più torride di un’estate stralunata dal caldo e dall’afa.

Un puma miagolò: miao! Era solo un felino nostrano che sgattaiolava via, disturbato nella sua siesta pomeridiana. Per riprendersi dallo spavento improvviso, il coraggioso guerriero pellerossa, o meglio pelle/ossa, si abbeverò all’acqua di una sorgente sgorgata miracolosamente dalla nuda roccia. Era la cannella comunale, perennemente rotta, che pisciava allegramente nel pomeriggio riarso.

Se continuava a vagabondare così, prima della fine dell’estate, i piedi di Cesarino, duramente esercitati sugli aspri sentieri dell’avventura, avrebbero consolidato delle calzature su misura, munite pure di anatomiche suole di calli.