L’ALTRO

L’uomo si abbandonò contro lo schienale della poltrona e la superficie di pelle color mogano si lamentò sommessa sotto la pressione della sua schiena. Si sentiva debole, sfinito. Mantenne le mani distese sopra la scrivania, lasciando che i palmi stampassero vaghe impronte umide sulla cartelletta di cuoio nero.
Il pomeriggio era ormai avanzato. Un sole anemico si affacciava da un finestrone, proiettando sopra il pavimento e su parte della vecchia libreria un fascio polveroso che non aveva la forza di scacciare tutte le ombre acquattate nel grande ufficio.
L’uomo sospirò, prima di parlare:
«E quindi, cosa dirai oggi a tutta quella gente?»
L’altro si fermò. Da un paio di minuti aveva preso a camminare avanti e indietro, entrando e uscendo dal biancastro cono di luce, producendo una serie di cigolii che parevano seguire di proposito il ritmo meccanico imposto della piccola pendola appesa nella penombra. La sua voce non cercò nemmeno di nascondere il disprezzo con cui era impastata.
«Cosa diremo, vorrai dire. Vuoi farmi credere che non sei più con me?»
L’uomo alla scrivania si strofinò una guancia, stirando la pelle fino ad assumere una smorfia dolente. Fissò l’altro, sorprendendosi per l’ennesima volta a rimuginare su quanto bizzarra potesse essere la vita. Dal canto suo, l’altro smise di guardarlo, sapendo che non avrebbe ottenuto alcuna risposta; quindi si portò alla finestra, lasciando che lo sguardo si smarrisse fra le cime degli alberi chini sotto l’alito freddo di settembre.
«Là fuori c’è il mondo» osservò, senza girarsi. «E aspetta solo noi, lo sai. Se lo facciamo attendere, qualcun altro prenderà il nostro posto, e noi ne saremo fuori. È questo che vuoi?»
Dopo alcuni istanti di silenzio, voltò il capo verso la scrivania e ripeté:
«È questo che vuoi?!»
Un brandello di luce si rifranse nei suoi occhi, trasformandoli per un istante in due braci.
L’uomo in poltrona si schiarì la gola, distogliendo lo sguardo da quel volto che sapeva assumere espressioni ferine.
«Non so che cosa voglio,» farfugliò. «Davvero, non lo so…»
L’altro incalzò: «Invece lo sai, eccome!»
Detto questo si avvicinò con due lunghi passi alla scrivania e vi abbatté un pugno, strappando al legno lucido uno schianto che vagò per diversi secondi nella stanza prima di lasciarsi assorbire dal silenzio. Per lo spostamento d’aria, alcuni fogli si sollevarono e planarono frusciando sul pavimento.
L’uomo seduto rimase ad ascoltare i battiti del proprio cuore. Avvertiva una dolorosa pressione alle tempie, e il respiro si stava facendo roco.
«Vorrei che tu te ne andassi,» rispose infine.
L’altro sollevò le sopraciglia, dipingendosi sulla faccia una maschera di beffardo stupore. Poggiando entrambe le mani sulla scrivania, le braccia tese, si sporse torvamente verso l’interlocutore, scrutandolo attraverso i veli d’ombra che adesso parevano prendere sostanza dall’aria stessa dell’ufficio.
«Ascoltami bene» ringhiò, «mio pavido amico. Io non sono qui per farmi frenare dai tuoi dubbi, o dalle tue debolezze. Hai scelto di delegare a me i tuoi sogni, e io sono intenzionato a realizzarli fino alle ultime conseguenze, che ti piaccia o no. Ormai ci siamo spinti troppo avanti, non sono ammessi ripensamenti!» Staccandosi dalla scrivania, poi, si portò al centro della stanza e sollevò un pugno verso un soffitto gia invaso dal buio.
«Questo è il nostro momento! Ora tu verrai con me, e insieme mostreremo la strada a tutta quella brava gente che aspetta solo di essere presa per mano!»
L’uomo alla scrivania sentì fra lingua e palato il sapore della parola che gli era salita dal cuore: pazzo. Ma tenne la bocca chiusa. Quell’uomo gli metteva paura. Lo aveva sempre fatto, e non c’era modo di liberarsi di lui.
Quando si udirono tre colpetti decisi contro la porta, entrambi volsero il capo.
L’uomo al centro dell’ufficio abbassò lentamente il braccio proteso contro un cielo immaginario e si passò le mani ai lati del capo, lisciandosi i corti capelli corvini. Con un cenno del capo ordinò tacitamente al compagno di rispondere.
L’uomo alla scrivania non esitò: «Avanti!»
Quando la porta venne aperta, una porzione della luce al neon accesa nel corridoio si intrufolò come un curioso cane giallastro nel grigiore stantio della stanza. L’ufficiale sulla soglia sbatté con fragore i tacchi e si portò due dita tese alla fronte.
«L’automobile è pronta, signore. L’attendiamo di sotto.» Parlando, concesse al proprio sguardo di vagare cautamente nel locale in cerca della persona con cui qualche istante prima aveva udito discutere il suo superiore. Non vedendo nessun altro, ritenne ragionevole concludere che si fosse trattato di prove a voce alta per il discorso che si sarebbe tenuto di lì a mezz’ora. Quando ebbe ricevuto in risposta un secco cenno d’assenso, l’ufficiale si ritirò, salutando con deferenza e richiudendo la porta dietro sé. I suoi passi sfumarono lesti lungo il corridoio.
Tirandosi in piedi, l’uomo alla scrivania sospirò a fondo. Era di nuovo il suo momento. Raggiunse con calma la finestra e lì si fermò, scrutando con aria assorta un mondo che pareva rabbrividire davanti a lui. Intuiva vaghe forme, nel vento: corpi laceri, smunti, che scivolavano fra le foglie morte; fantasmi dalle nere bocche spalancate che cercavano, senza trovarlo, qualche angelo che potesse prendersi cura di loro; artigli fatti di fumo nero che si levavano da fetide pire; ombre di pianti e preghiere, i respiri freddi e malati di simulacri umani, scheletri silenti ricoperti di pelle e stracci, e ancora grida, e carne devastata, e sangue… L’uomo chiuse per un istante gli occhi, ma il buio che stagnava dietro le sue palpebre non riusciva a cancellare quell’orrore. Li riaprì, e dietro quell’inferno evanescente si ritrovò con sgomento a mettere a fuoco il proprio volto, riflesso nel vetro. Lo fissò, un secondo soltanto; poi distolse lo sguardo, e allontanandosi dalla finestra raggiunse il lungo soprabito appeso all’attaccapanni. Appariva sgualcito e stanco come la sua anima.
«Bene, amico mio» osservò inatteso l’altro, sussurrandogli all’orecchio. «È tempo di terminare quello che hai cominciato».
L’uomo si girò verso l’ufficio deserto.
«Naturalmente» rispose.
Quando aprì la porta per uscire, una luminescenza opaca riverberò negli occhi dell’aquila di metallo appollaiata sulla parete dietro la scrivania, di fianco allo stendardo con la croce uncinata. Ma subito la porta si richiuse e ogni cosa tornò a dormire nell’ombra e nel silenzio.
[Pubblicato su L’Ippogrifo – giu.2008]