LA SCALATA di Nicoletta Zucchini

LA SCALATA

settimo episodio

da La crosta e la mollica

di Nicoletta Zucchini

Mauz non aveva il moccio, ma con il naso tirò su lo stesso, come per annusare l’aria che tirava nel quintetto; infatti, aleggiava un certo disagio fra loro, lo si percepiva chiaramente: meglio sbrogliarsi da quell’impiccio. Come un pirata che addenta il pugnale per andare all’arrembaggio di un galeone colmo di tesori, con naturalezza s’infilò l’armonica a bocca fra i denti, poi di colpo si slanciò verso il ramo sporgente del loro ippocastano, lo abbracciò, sollevò le gambe e vi si avvinghiò, incrociando energicamente i piedi: in un attimo vi fu a cavalcioni. Non soddisfatto della posizione, si spostò più in alto, su un robusto ramo laterale e ci si appollaiò comodamente. Per lo sforzo della salita incominciò a respirare profondamente e quando accostò alle labbra l’armonica, ne uscirono suoni chiari ed armoniosi. Alla soddisfazione per il risultato quasi accettabile, si unì una visione inaspettata che gli fece scorgere l’armonia e la bellezza della vecchia villa in tutta la sua maestosa decadenza. Da lassù e da quella distanza emanava un fascino misterioso, per nulla attenuato dal colore sbiadito della facciata, dalle vistose crepe nell’intonaco e dagli spigoli sberciati; da un lato la grande limonaia vuota, con i vetri rotti e il tetto sfondato, dall’altra il candido catino di marmo della fontana secca completavano quella visione, quasi un miraggio sperduto nella vastità della pianura. Da quel particolare punto di vista stentava a riconoscere il luogo delle loro sedute rotonde, quell’enorme disco vuoto gli sembrava un grande specchio al quale fosse stato tolto il potere di riflettere il cielo azzurro, le nuvole bianche, lo scintillio delle stelle e il becco giallo degli uccelli che, un tempo lontano, vi si abbeveravano furtivi sotto il sole.

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Mauz ancora con l’armonica in mano e non più fra le labbra, ora era attratto da un profumo intenso e dolce che gli penetrava il naso, volse lo sguardo alla sua destra, verso la zona alberata del parco, in uno slargo una magnifica magnolia dalle verdi foglie lucenti fioriva generosa con candide corolle perfette nella forma, nel colore e nel profumo, come un mistero inviolabile saettato in un lampo nel presente, dall’abisso di un’era sconosciuta. Mauz guardava, taceva e sospirava.

Blando, sempre tormentato dal singhiozzo, salì dietro di lui e quando fu ben appollaiato, ma su un altro ramo, ebbe un nuovo colpo di genio: si lasciò penzolare all’improvviso a testa in giù, come gli acrobati del circo, tenendosi solo con le gambe. La manovra gli procurò un sollievo immediato: il diaframma si era disteso completamente e il singhiozzo, così com’era venuto, cessò di colpo. Allora iniziò a oscillare nel vuoto con tutto il busto, braccia, testa e zazzera compresa. Sembrava che questa parte del corpo dovesse distaccarsi e precipitare nel vuoto da un momento all’altro. Intanto, a causa di questa bella altalena a testa in giù, non si era accorto che qualcosa gli era caduto dalle tasche, scivolando fuori e cadendo silenziosamente a terra.

«Ehi, attento con quella frusta mi cavi un occhio! Ehi, sta tenti con cla stropa t’am cavi ‘n occ!»

«Ma cosa vuoi che ti faccia, non vedi che è corta? L’è curta l’an riva brisa! Pissalet! È corta, non ci arriva mica! Piscialetto! Fifone non vedi, non arriva fin lassù!» urlò Niz frustando di nuovo l’aria.

«Dai, smettila, non tormentarlo, dà fastidio anche a me – intervenne Dando, che con le mani in tasca armeggiava con le sue biglie di vetro – dai, aiutami piuttosto a salire, Niz! Aiutami anche tu, Cesarino, oggi non mi sento di salire come al solito, non me la sento!»

«Dammi le mani e mettile così a scaranin, a seggiolino» ordinò Cesarino a Niz.

I due, uno di fronte all’altro, intrecciarono le mani a mo’ di sedile: «Allora, non stare lì imbambolato, vuoi tirar fuori quelle mani dalle tasche! ma che hai oggi?» fece Niz scocciato.

«Niente, niente…» Dando mise le mani al collo dei due compagni e puntò il piede sinistro sulle loro dita, poi tirò su anche il destro, appoggiò le braccia al ramo sporgente, quindi con i piedi salì sulle spalle degli amici e senza troppa fatica si issò sull’albero. Figlio di un calzolaio indossava solo calzature di pelle, e appena si fu appollaiato, sciolse le asole delle stringhe, allentatele, finalmente riuscì a sfilarsi le scarpe e di seguito i calzini bucati, che spinse dentro con cura. Annodò fra loro i capi delle stringhe poi impugnate le scarpe, le tirò con energia per verificare la tenuta del nodo dei lacci. Il nodo teneva. Allora con un gesto repentino appese le scarpe a cavallo del ramo, da cui penzolarono come frutti esotici, farciti di calzini bucati.

Di qua dal muro rimanevano solo Niz e Cesarino, questi con uno slancio repentino si appese al ramo sporgente, ma nella foga, i sandali infilati in tasca, caddero a terra con un tonfo sordo, sollevando intorno una nuvoletta di polvere.

«Toh! Ciapa! Toh! Prendi!» urlò Niz lanciando un sandalo dopo l’altro a Cesarino, poi rotolò il suo frustino e lo lanciò all’amico, in men che non si dica anche Niz fu sull’ippocastano.

Mauz riprese a zufolare, nessuno gli prestava attenzione, ad un tratto da sotto, Dando si era messo a gridare, mentre con la mano destra si asciugava la guancia: «Ehi, chi mi sputa addosso?» «Ma sarà stato un uccellino! Ho visto qualcosa passarmi davanti agli occhi!» fece Blando ancora a testa in giù. «Macché uccellino, qui non c’è nessun uccellino, qui c’è qualcuno che…» continuò Dando incavolato nero, spostando nervosamente avanti e in dietro le scarpe appese al ramo.

«Ma che sta succedendo? Non si può suonare in pace!» intervenne Mauz inconsapevole di cosa succede quando si suona uno strumento a fiato: immancabilmente si accumula saliva, che per effetto della gravità non può che cadere. Dando guardava fisso le sue preziose scarpe, era arrabbiatissimo, con le mani in tasca stringeva e trusciava forte delle biglie l’una contro l’altra. E una schizzò giù: ploff… «Dove l’hai presa, è mia!» Blando mettendosi una mano in tasca, aveva scoperto di non avere più la sua biglia gialla, verde e blu; se la prendeva con Dando, colpevole a suo dire di avergli soffiato il suo portafortuna. Non considerando di essere sospeso a testa in giù, si dimostrava come il suo amico, del tutto ignaro degli effetti della forza di gravità.

Sperando di calmare quelle acque agitate, Niz fece schioccare in aria il frustino, lastruplina.

«Ahi!» urlò Cesarino colpito a un braccio «È ora di smetterla! Basta con quel frustino!»

I richiami di Cesarino sortirono l’effetto di un cerino acceso vicino a un mucchio di paglia secca.

La zuffa si incendiò e si alimentò al vento della rabbia, che covava: i cinque amici divennero un groviglio inestricabile. Impossibile fare la telecronaca di quel parapiglia, fatto di tirate d’orecchi, di prese per i capelli, di solletico sotto le ascelle, di sputi, di ringhiate, di calci dove capita capita, di corpo a corpo, di spinte e di strattoni. Ben presto quella lite furibonda si trasformò in una palla formicolante in bilico nella concavità da dove si dipartivano i rami principali. Grida, gemiti, sbuffi, rantoli uscivano da quel mostruoso groviglio. Fu inevitabile, a un certo punto, più che precipitare, la palla vivente rotolò giù, seguendo la linea inclinata di quel tronco spropositato.

«Aaahoo!» gridarono tutti insieme, e scrash! sprofondarono.