LA LUNGA STRADA VERSO IL MARE (parte 2 di 2)

[segue]

La radio gracchiò. Una voce maschile stava dando informazioni in merito a qualcosa che comunque non si riusciva a capire. La ricezione, in quel punto, si era fatta più disturbata. Parole o anche solo sillabe si intrufolavano in mezzo a un fastidioso scoppiettio, come se qualcuno si stesse divertendo a parlare accartocciando un foglio di carta stagnola davanti alla bocca. Renzo armeggiò qualche istante con i tastini per la ricerca automatica dei canali, arrendendosi dopo poco nello scoprire che anche le altre emittenti sembravano trasmettere attraverso una grandinata elettrica.

Con uno sbuffo sonoro spense la radio, e lanciò per inerzia un’occhiata allo specchietto retrovisore. La Punto bianca non c’era più. Al suo posto ora lo seguiva un furgoncino di un’indefinibile sfumatura gialla, guidato da un uomo in tuta da meccanico e berrettino blu con visiera. Si domandò se quell’automezzo avesse semplicemente sorpassato la Punto sono per rientrare immediatamente dietro di lui, o se magari i due litigiosi anziani lo avessero superato mentre era distratto. Improbabile, concluse; ma comunque irrilevante.

Il flusso, nella sua corsia, procedeva adesso con andatura costante, ovverosia lentissima. Cominciò a percepire un pizzicore alle estremità dei piedi, costantemente impegnati a pigiare alternativamente i tre pedali. La leva del cambio, ormai, si era fossilizzata sulla prima marcia; un paio di volte Renzo si era azzardato a inserire la seconda, ma il brontolio del motore lo aveva indotto a rinunciare.

Una goccia di sudore gli solleticò la gola, e slacciando un paio di bottoni della camicia si accorse di quanto fosse umida la sua pelle. Che succedeva? Uno sguardo al cruscotto gli comunicò un’informazione poco rassicurante: la spia verde dell’aria condizionata era spenta. Come aveva fatto a non accorgersene? In effetti, ora che aveva zittito la radio, era evidente che il basso ronzio prodotto dall’impianto non si udiva più. Schiacciò più volte il bottoncino dell’accensione, senza ottenere alcun apprezzabile risultato. Una parolaccia gli scivolò sulla lingua. Non poté far altro, allora, che affidarsi alle ventole della normale aerazione, anche se l’aria che si sentì soffiare sulla faccia non avrebbe potuto essere considerata un sollievo.

La luce del sole, adesso, gli parve essersi velata dietro uno strato di garza gialla; ma d’impulso incolpò, per quella strana percezione, la pulsante stanchezza che iniziava ad avvertire dietro agli occhi. Un calo di pressione, magari. Il caldo…

Nel momento esatto in cui pensò di telefonare a sua moglie per avvisarla dell’incomprensibile ritardo, l’orologio digitale sul cruscotto gli segnalò che erano già le 18.05. «Che cosa?!»

Allungò una mano verso il piccolo vano portaoggetti sotto la radio e afferrò il cellulare. Alternando occhiate nervose alla tastiera e all’auto davanti a sé (ma non c’era una Y10, prima?) cercò di recuperare col pollice il numero dalla rubrica; ma quando si accorse che delle quattro stanghettine che indicavano sul display l’intensità del campo non se ne vedeva nemmeno una, sbatté con un grugnito il telefonino sul sedile del passeggero.

Davanti a lui, adesso, procedeva con inesorabile lentezza una Clio azzurrina. Il conducente non era identificabile, per via della tendina parasole applicata con ventose al vetro posteriore, un ampio rettangolo viola al centro del quale spiccava il volto pallido di un clown. Renzo distolse lo sguardo, infastidito, e lo rivolse al lato destro della carreggiata. Cosa avrebbe dovuto fare? Fermarsi in una piazzola d’emergenza? E una volta fermatosi, poi, che vantaggio ne avrebbe tratto? A parte il fatto che di piazzole, dal momento in cui si era ritrovato incastrato in quell’assurda situazione, proprio non ricordava di averne superate. Possibile?

La strada, in distanza, continuava a snodarsi, uniforme, tra rettilinei smisurati e larghissime semicurve oltre le quali la rovente catena di autoveicoli non cessava di scivolare, avanti, sempre avanti…

Una gocciolina calda, colando da una tempia, gli percorse la guancia come un insetto frettoloso, che si dissolse sotto il nervoso intervento delle sue dita prima di poter trovare rifugio fra le pieghe del colletto. Dalle ventole si intrufolò nell’abitacolo un soffio torrido che gli trasformò la camicia in un cencio vischioso, intrappolato nell’abbraccio della cintura di sicurezza. Allora fu colto da un subitaneo senso d’oppressione, di insofferenza. Un accenno di bruciore prese a vagargli nello stomaco.

Nel suo campo visivo, da sinistra, comparve una massiccia sagoma nera. Voltandosi per guardare, si accorse subito con sgomento che si trattava dello stesso SUV da cui era stato superato diversi (quanti?) minuti prima. Il guidatore manteneva la stessa, innaturale fissità di un manichino, mentre la donna al suo fianco continuava a scrutare davanti a sé tenendo entrambe le mani sulle guance, come in preda a un indicibile sconforto. In quanto al bimbo accomodato dietro, ancora lo fissava con un’espressione di ineffabile compunzione; questa volta, però, il piccolo sollevò una mano e accennò un timido saluto all’indirizzo di Renzo, che ricambiò prontamente abbozzando un sorriso perplesso. Poi il SUV passò oltre, e altri volti bianchi e confusi si avvicendarono, sigillati a bordo dei propri automezzi.

Ma… che ore erano? Il sole non incombeva più su ogni cosa. A quanto pareva si era abbassato, alle spalle di quella desolante processione. Renzo ne colse un balenio rossastro dallo specchietto retrovisore, ed ebbe l’impressione di deglutire sabbia. Il cielo aveva assunto adesso una tinta vagamente cinerea. L’orologio sul cruscotto segnava… 88.88. Tutti i cristalli liquidi si erano attivati, compresi quelli che indicavano temperatura esterna e data. Solo una sfilza di 8, tremuli, insensati.

Udì, lontano, lo stridio dolente di qualche animale notturno, mentre l’aria si addensava depositando sul mondo una patina fosca e caliginosa. Sto arrivando, sospirò, immaginando quanto potessero stare in pensiero le persone che lo aspettavano. Sto arrivando.

Verso l’orizzonte, la strada – traboccante di migliaia di piccole luci e anime desolate e attonite – continuava a stendersi, senza fine, nel ventre muto della notte.