DA UOMO A UOMO

Adelmo fissò il proprio volto replicato nelle luminose profondità dello specchio. L’aspetto era quello di sempre, ma lui sapeva bene di essere invecchiato. Si sentiva molto invecchiato, dentro.
Scacciando quelle oziose considerazioni posò lo sguardo su Paolino, tranquillamente e fiduciosamente seduto sulle sue ginocchia. I suoi occhi azzurri avevano un’aria vispa che poteva di volta in volta essere scambiata per allegria o per irrequietezza; pareva quasi sapesse che quel giorno lui aveva intenzione di parlargli a cuore aperto, di dirgli cose che mai gli aveva detto.
«Paolino…» esordì l’uomo. «Volevo domandarti una cosa. Hai voglia di ascoltarmi?»
Paolino gli rivolse uno sguardo così sereno che quasi lo commosse. Rispose con voce da uccellino: «Certo che ho voglia di ascoltarti!»
Adelmo riportò lo sguardo allo specchio, laddove le loro due immagini riflesse parevano galleggiare tra i flutti di un mondo che stava andando alla deriva, ormai pericolosamente prossimo al richiamo di un gorgo silenzioso.
«Mi piacerebbe parlarti da uomo a uomo, una volta tanto. Lasciamo a parte i giochi, vuoi?»
Paolino dondolò le gambette, annuendo. «Sì, mi piace: parliamo da uomo a uomo, dai!»
Adelmo trasse un sospiro, attingendolo direttamente dall’anima.
«Tu cosa… cosa faresti se… se io me ne andassi?»
Paolino lo fissò vagamente allarmato, ma poi il suo naturale buonumore lo aiutò a trovare la risposta giusta.
«Be’, verrei con te!»
«Sicuro» ribatté l’uomo. «Verresti con me. E ora dimmi: saresti disposto a partire anche adesso? Intendo proprio adesso, ora, fra un minuto… O hai forse qualcos’altro da fare?»
Paolino parve pensarci su, esaminandosi le punte dei piedi; quindi risollevò la testa e annunciò: «Partiamo anche subito, se vuoi! Ma… la mamma?»
Adelmo si sentì attraversare il cuore da una scarica di energia nera, una sorta di buio elettrico che gli si propagò al cervello nell’arco di un secondo.
«No. La mamma… lei rimane. Di lei non ci importa, vero?»
«A pensarci bene… No, proprio non ci importa!»
«E allora abbracciami, Paolino. Non siamo rimasti che tu e io. Se ce ne andiamo assieme, non rimarremo mai soli, ovunque andremo. Avvicinati…»
Paolino non se lo fece ripetere. Allargando le braccia, gli affondò il visetto contro il collo. «Posso baciarti?» gli sussurrò.
«Devi» rispose l’uomo, mentre lunghe lacrime percorrevano i rugosi canali sulle sue guance. E con le dita della mano destra prese a stringere, a stringere, senza concedersi il minimo ripensamento…
Dopo aver ricordato al poliziotto di piantone di non lasciare entrare anima viva fintanto che non gliel’avesse ordinato, il commissario Ligotti richiuse con eloquente energia la porta del camerino. Poi si girò a fissare con cipiglio assorto la lima sul tavolino da toeletta e la polvere biancastra sparsa tutt’attorno. Infine, si decise a posare di nuovo lo sguardo su Adelmo Marchetti – in arte Mister Meraviglia – steso scompostamente sul pavimento accanto allo sgabello da cui, morendo, era scivolato. Date le ridottissime dimensioni del locale, dovette evitare di muoversi incautamente per non finire coi piedi nella pozza di sangue che si dipartiva a rigagnoli da quella gola squarciata.
I polpastrelli di pollice e indice gli tormentavano gli angoli della bocca mentre parlava: «Proprio un curioso suicidio, già…»
Oltre a lui – e ovviamente al cadavere – le sole persone presenti erano il fotografo della polizia e l’impresario del teatro. Quest’ultimo, un ometto tarchiato dalle gote rubizze, continuava ad asciugarsi il sudore delle mani contro il panciotto.
«Io… non avrei mai pensato… che potesse arrivare a tanto…»
I flash della macchina fotografica sembravano sottolineare ogni frase, chiazzando il corpo disteso e il piccolo fantoccio in smoking riverso su di lui con repentini aloni di irrealtà.
Il commissario si accosciò, dondolandosi sui talloni e torcendo il collo per memorizzare ogni dettaglio. Sapeva bene di non dover toccare nulla, così come sapeva che mai e poi mai lo avrebbe fatto. Chi di dovere avrebbe di lì a poco avuto l’onore di compiere l’ingrato lavoro di rimozione.
«Dal punto di vista professionale» continuò l’impresario, pur se non interpellato, «non aveva nulla di che lamentarsi. Con me aveva un ottimo contratto, e pare anche che qualcuno della televisione lo avesse notato. La sua vita privata, ecco… quella magari non era tutta rose e viole… So che sua moglie lo ha piantato, non molto tempo fa… Scappata con un altro. Ė tutto quello che so, non mi sono mai impicciato…»
Il commissario lo ascoltava con un orecchio solo, intento com’era a studiare la perizia con cui i piccoli denti in ceramica di Paolino erano stati limati. Ridotti così ricordavano davvero minuscole zanne di squalo, affondate nella gola oscenamente sbrindellata del ventriloquo. Il medico legale e la sua squadra sarebbero arrivati nel giro di qualche minuto. Sicuramente avrebbero sudato per aprire le dita che il cadavere teneva rigide dentro la testa del pupazzo, sistemate proprio dietro le mandibole in modo da poterle manovrare.
Ligotti provò un brivido, accompagnato da un intimo sollievo al pensiero che l’età della pensione non era poi così lontana.
(Prima pubblicazione: Mystero – giugno 2004)