COLPA DELLE NUVOLE

All’età di sette anni è difficile riuscire a distinguere sempre il bene dal male. Giocare a incenerire formiche sfruttando i raggi solari attraverso una lente era per Aki un gioco spassoso, e basta. Solo che in quel mattino d’agosto il sole pareva non volerne sapere di concedergli quel piccolo, crudele divertimento. Una coltre di nubi color bianco sporco stagnava indifferente nel cielo, permettendo appena a un diffuso bagliore lattiginoso di distillarsi in una tiepida cappa sopra i tetti bassi e malconci di Kokura.
Il bambino impugnava per una stanghetta gli occhiali prelevati silenziosamente dalla camera del nonno, che se ne stava ancora a letto. Finché non si fosse alzato, naturalmente, di quegli occhialetti dalla montatura sottilissima non avrebbe avuto bisogno; per cui, il momento era perfetto per catturare la luce, convogliarla attraverso una delle lenti un po’ sporche e concentrarla sopra quel nero brulichio che aveva preso dimora in un angolo del loro giardino.
«Dai, toglietevi da lì davanti!» esclamò Aki, accovacciato sulla terra fresca, lo sguardo serio rivolto alle nuvole. Un rombo lontano fu la loro risposta risentita.
Intanto le formiche girovagavano indisponenti per ogni dove, mentre appena un innocuo alone bianchiccio le raggiungeva, debole e frustrante, calando su di loro dalla superficie convessa di una lente. Nessun risultato. Nessun divertimento.
La mamma di Aki comparve sulla soglia di casa. Indossava un logoro grembiule, e continuava ad asciugarsi le mani rigirando e arrotolando un informe groviglio giallo che doveva essere uno strofinaccio. «Mi hai chiamato?» chiese, con voce sottile.
Aki voltò il capo  verso di lei, rimanendo appostato nel suo infruttuoso agguato.
«“No, mamma. È solo che se non esce il sole io non posso fare niente!»
Un sorriso affaticato stirò le labbra esangui della donna. «Dai, che fra un po’ il nonno si alza. Avrà bisogno dei suoi occhiali…»
Di nuovo quel rombo, al di là delle nubi. Più vicino, questa volta.
«Ancora un minuto, mamma. Fra poco arrivo!»
La donna scrutò il cielo, perdendosi in quel pallido grigiore. Quindi tornò a fissare il figlio.  «Aki, per favore. Torna in casa.»
«Ma perché?» si lagnò il bambino, dondolandosi nervosamente sui talloni. Bruciare formiche gli dava una sensazione di onnipotenza, lo faceva sentire grande, quasi divino. Il fatto di dover rinunciare per colpa di quelle stupide nuvole gli faceva venir voglia di piangere. Guardò il cielo con rancore, mentre un rombo di motori, a incalcolabili altezze, sorvolava il mondo, si gonfiava, si diffondeva in un vibrante brontolio, prima di richiudersi su sé stesso, allontanandosi, facendosi fievole, irraggiungibile, perduto.
La voce della donna, questa volta, si innalzò di un tono.
«Aki, in casa. Subito!»
Aki distolse a malincuore lo sguardo dalle sue formiche, che sembravano schernirlo, e tirandosi in piedi (sbuffando, ma stando bene attento a non farsi vedere) si diresse a capo chino verso la madre. Questa lo guardò avvicinarsi, e quando le fu accanto gli passò una mano fra i capelli nerissimi, in un semplice gesto che racchiudeva tutto l’amore del mondo. Gli occhi della donna scandagliarono un’ultima volta il cielo.
Anche Aki, prima di rientrare, volse lo sguardo alle nuvole, e mostrò loro la lingua. Poi, le due sagome scomparvero silenziose nella frescura ombrosa dell’interno.
Il bollettino meteorologico via radio era chiaro: la visibilità sopra Kokura risultava troppo limitata. Diveniva pertanto assolutamente necessario, per una soddisfacente riuscita dell’operazione, prendere in considerazione uno degli obiettivi alternativi. Il pilota dell’Enola Gay diretto a Kokura ringraziò per l’informazione fornitagli dal B-29 ricognitore, e virando con decisione verso nord-est attese con calma di raggiungere la nuova meta, eludendo la sfilacciata, deprecabile protezione offerta da tutte quelle nuvole.
Quando, dopo alcuni minuti, comparve laggiù – minuscola e scura, lontana oltre diecimila metri – Hiroshima assomigliava davvero tanto a un formicaio. In mancanza di una gigantesca lente, ci sarebbe voluto un secondo sole per ridurlo in cenere. Quello che di lì a poco avrebbe brillato.
(Pubblicato su L’Ippogrifo, aprile 2009)