CASTELLI DI SABBIA

Attilio li vide subito, il mattino successivo il suo ritorno a Villa Dora.

Lo avevano svegliato con le loro grida, con le loro risate. Con i loro richiami. Uscì a fatica dal sonno in cui era faticosamente scivolato dopo ore insonni spese a rimestare nel turbolento calderone dei ricordi, e volse occhi opachi alla sveglia sul comodino.

Le lancette segnavano le 5 e 58.

Non riuscì a sentirsi sorpreso. Per tutta la vita si era portato nel cuore un orologio fermo sulle 5 e 58, pur senza poter dire di averci mai pensato veramente. Era un’idea collocata lì, semplicemente, come parte di sé, così come può esserlo un piccolo tumore benigno. Inspirò a fondo l’aria calda rinchiusa nella stanza assieme a lui; e anche se la porta-finestra del balcone era aperta quasi per metà, l’afa di luglio era già un torrido, immobile tendaggio da cui non filtrava il minimo miraggio di frescura.

La consapevolezza di trovarsi di nuovo in quella stanza, in quella casa, dopo così tanti anni, gli regalò un brivido infinitamente gradito. Era trascorso un oceano di tempo. Eppure, per qualche capriccio della mente, gli incalcolabili giorni scivolati via da quando aveva lasciato Villa Dora gli parevano poco più che una trascurabile manciata di sabbia nella clessidra del suo cervello.

É la vita, si disse, sorridendo alla banale constatazione che si era fatta largo fra i suoi pensieri; e tirandosi goffamente a sedere sul letto infilò i piedi nelle ciabatte ruvide.

La spiaggia nasceva a poca distanza dal retro della villa, oltre la siepe di ginepro che delimitava un insignificante giardinetto, per perdersi laggiù, sul lungomare, e svanire poi sotto schiume azzurre e biancastre.

I bambini erano là, festanti, attorno al castello di sabbia che stavano edificando, profittando del fatto che ancora nessuno, a quell’ora, li potesse disturbare. Attilio li osservò dal balcone, seminascosto dietro la sottile tenda bianca. L’odore del mare era una delizia cui era stato costretto a rinunciare, quando la sua famiglia aveva deciso di trasferirsi altrove, dopo la disgrazia. Ma adesso capiva di non averlo mai davvero dimenticato. Era una sensazione inesprimibile, una presenza che se n’era rimasta avvinghiata inestricabilmente agli strati più profondi, quasi irraggiungibili, della sua coscienza.

Restò immobile per un tempo che non seppe definire, a fissare quelle figurette allegre che balzellavano da un lato all’altro dell’effimero maniero brunastro in costruzione. La luce bianca, radente del sole pennellava d’ambra i loro profili contro le scintillanti increspature dell’acqua. Si domandò se fossero rimasti sempre là, a continuare il loro limpido gioco, o se magari si fossero dati appuntamento apposta per lui, per festeggiare il suo atteso ritorno.

Mancava da Villa Dora dal 1945. Assieme alla famiglia, aveva lasciato la casa natale per trasferirsi in provincia di Bologna, dove i parenti di sua madre erano facoltosi quanto bastava per possedere una seconda casa. Si stava ricostruendo l’Italia, in quei giorni, e anche la sua vita.

Era riuscito così a ritrovare un proprio equilibrio: aveva allacciato nuove amicizie, si era diplomato, aveva trovato lavoro come impiegato presso uffici comunali, aveva avuto alcune relazioni, pur senza mai sposarsi, era andato in pensione… Aveva vissuto, né più né meno. Ma Villa Dora era sempre rimasta nel suo cuore, annidata in un cantuccio. Là aveva vissuto i primi, spensierati nove anni della sua vita, e là sapeva che sarebbe dovuto tornare, prima o poi.

Era stato costretto ad attendere qualche mese, naturalmente, per consentire l’esecuzione dei lavori necessari a rendere ancora abitabile la grande casa abbandonata; ma ne era valsa la pena, e infine aveva potuto lasciare Bologna, offrendo così al destino l’opportunità di completare il disegno concepito per lui.

I ragazzini ora parevano essersi accorti della sua presenza, perchè gli stavano indirizzando ampi gesti con le braccia. Era certo che lo avrebbero visto, e chiamato. Così come sapeva di essere tornato a Villa Dora nella speranza di poterli incontrare, tutti quanti. C’era un castello da terminare, laggiù. Non poteva farli aspettare.

Il tempo di mettersi qualcosa di leggero addosso, tanto per essere presentabile qualora qualcuno lo vedesse scendere in spiaggia, e si ritrovò a camminare sopra un mare di sabbia ancora fresca. Presto l’istinto gli impose di abbandonare le ciabatte, e le vibrazioni sprigionate da quella distesa di fini granelli attraverso le piante dei suoi piedi ebbero il potere di fargli salire pesanti lacrime agli occhi. Accelerò il passo, sorridendo.

I ragazzini, intanto, chiamavano a gran voce il suo nome, improvvisando una bislacca danza attorno al castello che, riducendo le distanze, denunciava le numerose mancanze, le incertezze strutturali, le approssimazioni. C’era davvero bisogno del suo aiuto, per completarlo a dovere.

Li riconobbe senza la minima esitazione. C’erano Andrea, e Marco, e Bruno, e Renzo, e il più giovane del gruppo, Carlo, detto Scricciolo. L’accoglienza che gli riservarono fu quanto di più commovente e straziante avesse mai sperimentato in tutta la sua vita. Poté percepire la loro gioia, la loro esultanza farsi onda, soffio di vento fra i capelli, pelle d’oca sull’anima. Nessuno di loro parlò, non ce n’era bisogno: dai loro volti, dai loro occhi, straripava il fiume delle mille e mille piccole cose mai dette, sempre rimandate. E quando Scricciolo gli porse la grande conchiglia venata di giallo e di rosa – la conchiglia che avrebbe rappresentato l’orgoglioso decoro per la guglia più alta del castello – Attilio non poté trattenersi dal cadere in ginocchio, accanto al grossolano fossato che i ragazzi stavano scavando con le loro piccole vanghe attorno al regale edificio sabbioso, liberando il pianto crudo che gli urgeva dentro.

«Non potevo sapere cosa sarebbe successo!…» rantolò fra i singhiozzi. «Io volevo essere con voi, credetemi… Io voglio essere con voi!…»

E ogni dettaglio, ogni singolo frammento di tempo appartenente a quell’infernale mattino del ’45 sgorgò dalle voragini della sua memoria, e lo inghiottì.

 Ha solo nove, candidi anni. Nella sua testa non vi è spazio per altro che non sia quel magnifico castello in costruzione, quella sabbia bagnata tutt’intorno, quella serenità che da pochi mesi si è tornata a respirare sul mondo. Poi, ci sono le vacanze, e i suoi compagni, e il sole appena sorto, e il mare…

Imprime con un dito un ultimo ritocco al castello prima di risollevarsi, dopodiché si allontana dall’indaffaratissimo gruppetto vociante in cerca di una conchiglia che sia degna della loro opera, guardandosi attorno con allegra frenesia…

Sono le ore 5 e 58.

L’esplosione.

Lo spostamento d’aria lo fa cadere, bocconi. L’universo si tinge di lampi rossi e nubi di piombo. Strilli di bestie sventrate incidono col sangue sul suo cuore l’irreparabile fine dell’infanzia. Non ha visto i compagni scavare il fossato, dietro di lui. Non ha visto la vanga di Scricciolo colpire la bomba inesplosa, belva dormiente accucciata nella sabbia. Non ha mai visto cosa è rimasto di tutti loro. Sa soltanto di essere stato l’unico a non seguirli. L’unico, per un puro caso, a non condividere il destino che ha lacerato gli immacolati calendari dei suoi più cari amici. Non gli sembra giusto. Proprio per niente.

Tornò a sollevare lo sguardo. Le forme dei suoi giovani compagni di un tempo tremolavano attraverso cristalli di lacrima, sagome granulose come sabbia, dorate sotto i raggi sempre più caldi del sole.

«Sono tornato per questa,» bisbigliò. «Il castello è davvero finito, adesso.»

E posò con delicatezza la conchiglia in cima al turrito cumulo di sabbia umida.

 

Il corpo dell’uomo venne ritrovato poco più tardi, riverso bocconi sulla spiaggia, accanto al rozzo castello. Nel pugno stringeva una grossa conchiglia gialla e rosa.

Nessuna circostanza misteriosa, nessun dubbio. I commenti furono unanimi.

Era anziano, poveretto… Proprio ieri era tornato alla sua amata Villa Dora, pensate…

Il cuore.

Già. Il cuore…

Dato lo scompiglio che seguì il ritrovamento, nessuno ebbe la possibilità di distinguere, attorno al corpo, sulla sabbia, le cento piccole orme di piedi scalzi. Orme che non giungevano da alcun luogo, e che a nessun luogo ritornavano.

[Prima pubblicazione: L’Ippogrifo, mag. 2006]