Il tuffatore

“ Si incamminò lungo lo stretto pontile di legno che portava al trampolino, si tolse gli occhiali e li posò al fondo della scaletta. Poi, mezzo cieco, si arrampicò fino alla tavola. Guardando davanti a sé, distingueva la tavola fino al bordo, ma poco altro. Le colline, i boschi, l’isola bianca, addirittura il lago, erano spariti. L’aria era piacevolmente calda, il suo corpo era piacevolmente caldo, e si udiva solo il rintocco delle palle da tennis e di tanto in tanto un rumore metallico quando in lontananza qualche campista tirava un ferro di cavallo e centrava il piolo….Si riempì i polmoni dell’aria innocua e pulita delle Pocono Mountains, poi fece tre saltelli in avanti, prese lo slancio e, controllando durante il volo alla cieca ogni centimetro del suo corpo, entrò con un semplice tuffo ad angelo, in quell’acqua che riuscì a vedere solo l’istante prima che le sue braccia la fendessero con eleganza e lui piombasse in profondità nella fredda purezza del lago.”

Questo brano, tratto dal romanzo di Philip Roth Nemesi, pubblicato nell’Ottobre del 2010, mi ha ricordato un racconto di David Foster Wallace, Per sempre lassù (Forever overhead) scritto nel 1992 che è invece un’unica e acuta descrizione del tuffo di un adolescente dal trampolino di una piscina affollata. Ecco la fine del racconto:

Il problema non è l’altezza. Quando torni giù cambia tutto. Quando colpisci, con il tuo peso. E allora qual è la bugia? Durezza o morbidezza? Silenzio o tempo? La bugia è che è l’una e l’altra cosa. Un’ape immobile, fluttuante, si muove più in fretta di quanto lei stessa non pensi. Da lassù la dolcezza la fa impazzire. La tavola annuirà e tu andrai, e i neri occhi di pelle si potranno incrociare e accecare in un cielo maculato di nuvole, luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Che è per sempre. Metti piede nella pelle e scompari.

       Ciao.”

 

Questi due tuffi dal trampolino, quello del tredicenne protagonista del racconto di David Foster Wallace e l’altro del protagonista adulto di Philip Roth, sembrano lo stesso tuffo anzi l’uno il proseguimento dell’altro. Un unico tuffo indistinguibile e inestinguibile. Un tuffo quasi osservato al rallentatore, fotogramma per fotogramma o in un unico fermo immagine come questo:

IlTuffatoreTomba del tuffatore, scoperta a pochi chilometri dall’area archeologica di Paestum nel 1968 nella località tempa del Prete.

L’altro giorno, il 22 Maggio, Philip Roth… messi i piedi nella pelle, è sparito sotto il pelo dell’acqua. Ciao.

In Nemesi, il grande scrittore americano, più che in tutti gli altri suoi libri affronta il tema del senso dell’esistenza e del rapporto che ognuno di noi ha con la presenza o l’assenza della fede in un dio (dell’acqua in cui ci tuffiamo?).

Bucky Cantor, giovane professore di educazione fisica, appena laureato, nell ’estate del 1944, finisce a lavorare, come animatore in un campo estivo, del quartiere ebraico di Newark dove è cresciuto. Bucky, a differenza dei suoi amici, non è riuscito ad arruolarsi per combattere la guerra contro i Nazisti, poiché dichiarato inabile alla leva per problemi alla vista. Per questo motivo prova una grande sofferenza interiore, acuita dalla circostanza di non avere potuto seguire i consigli del nonno che, avendo conosciuto la violenza dell’antisemitismo, gli ha instillato nell’animo l’ideale del coraggio e la determinazione a farsi valere come uomo libero ed indipendente.

Al campo giochi Bucky assiste impotente e spaventato alla perdita di alcuni suoi allievi, che si ammalano e muoiono improvvisamente a causa di un’epidemia di poliomelite esplosa in quella estate. Per questo inizia a maturare una visione negativa della divinità, ponendosi l’angosciante e inquietante interrogativo sulla presenza del male nel mondo. Bucky, iniziando a provare un sentimento di estraneità verso un Dio ritenuto crudele ed ingiusto, partecipa ai funerali dei suoi giovani allievi e, sempre più impaurito e preoccupato, medita di trasferirsi in un altro campo estivo sulle vette delle Pocono Mountains, dove si trova la sua fidanzata Marcia, a cui è legatissimo. Nel campo estivo situato in alta montagna, Bucky ha l’impressione che i bambini e gli adolescenti che lo affollano, per seguire le attività sportive che vi si svolgono, sembrano essere al riparo d qualunque rischio . In questo luogo, gestito da un signore che conosce la cultura degli Indiani, si imitano e si riproducono con i bambini e gli adolescenti la vita e i rituali con cui gli indiani esorcizzavano il male e la sventura.

La convinzione di Bucky di essere al sicuro, in un posto in cui la natura mostra un aspetto apparentemente salubre , si rivela però illusoria ed ingannevole. Nella parte finale del libro Bucky incontra un suo ex allievo, divenuto, malgrado fosse stato colpito dalla malattia, un bravo professionista, al quale confida di sentirsi responsabile, a distanza di anni, della morte dei suoi allievi, e di non nutrire nessuna fiducia in un Dio che, secondo lui, si è dimostrato del tutto indifferente alla sorte di giovani e adolescenti, impegnati in guerre distanti e così differenti: contro i nazisti in Europa e contro la poliomelite in casa propria. Nel dialogo con il suo ex allievo, Bucky afferma di considerarsi un enigma teologico, ambiguo e irrisolto, come quello, potremmo aggiungere, che da sempre si presenta nel libro di Giobbe.

Quello che risulta singolare in questo racconto è il modo con cui Roth risolve il nodo della narrazione. Il “narratore” emerge lentissimamente dal tessuto del racconto. Prima c’è un “noi” che all’inizio accompagna il racconto in maniera ambigua e immotivata.

Poi, più avanti, compare un “io” che prende anche un nome: quello di Arnie Mesnikoff, uno dei bambini del campo giochi di Newark, che ha contratto la poliomielite. Infine, solo ventisette anni più tardi nel 1971 dunque, Arnie, adulto, segnato dalla poliomielite, ma non distrutto e annegato come Bucky dal morbo, viene finalmente in primo piano come testimone e vero narratore della vicenda che Bucky stesso, incontrato per caso, decide di rivelargli per intero.

Questa parte non scritta del racconto, questa emersione lenta del narratore dalla profondità della storia, sembra volerci rappresentare qualcosa di evidente ma spesso inosservato: se osserviamo un tuffo per intero, alla fine c’è sempre una riemersione.

Così se la conclusione del libro di Roth è logica ma difficile da accettare, il modo di narrarla suggerisce che, come spesso accade nella vita umana, in circostanze tragiche rispetto alle quali si è indifesi, anche il caso deve avere il suo ruolo, sicuramente difficile da comprendere e da decifrare ma che, proprio per la sua illogicità o per la nostra incapacità di afferrarlo, definiamo enigmatico.

E allora qual è la bugia? Durezza o morbidezza? Silenzio o tempo? Vita o morte?

La bugia è che è l’una e l’altra cosa.

E noi siamo come…per sempre lassù (forever overhead). Restiamo, cioè, adolescenti alla ricerca di dare un senso a quello che succede intorno a noi; come se ci trovassimo in una bolla trasparente che da un momento all’altro può scoppiare per farci sentire i veri rumori e umori della vita. Sopraffatti e sommersi da un cielo che pur facendo parte di noi, resta lontano e  inafferrabile. Sopraffatti e sommersi da un ’acqua dalla quale si riemerge per riprendere aria, per rituffarsi ancora.

Il tuffatore

Il tuffatore preso au ralenti/disegna un arabesco ragniforme/ e in quella cifra forse si identifica/ la sua vita. Chi sta sul trampolino/ è ancora morto, morto chi ritorna/ a nuoto alla scaletta dopo il tuffo,/ morto chi lo fotografa, mai nato/ che celebra l’impresa./ Ed è poi vivo/ lo spazio di cui vive ogni movente?/ Pietà per le pupille, per l’obiettivo,/ pietà per tutto ciò che si manifesta,/ pietà per il partente e per chi arriva,/ pietà per chi raggiunge o ha raggiunto,/ pietà per chi non sa che il nulla e il tutto/ sono due veli dell’Impronunciabile,/ pietà per chi lo sa, per chi lo dice,/ per chi lo ignora e brancola nel buio/ delle parole!.

da E. Montale, Tutte le opere, Mondadori, Milano, 2004