Tutto ciò che emerge converge

Nel dicembre 2000 durante una spedizione nel medio Atlantico della National Science Foundation furono scoperte delle bocche idrotermali, un sistema di camini sottomarini contenenti forme biologiche primordiali. Quando gli oceanografi dell’Università di Washington li scoprirono ribattezzarono questa area “The Lost City”. La meta, come spesso accade, è solo una persistenza dell’origine e quel sistema di camini idrotermali sembrava esserne una ulteriore conferma: giaceva infatti ai confini del cosiddetto Massiccio di…. Atlantide; la città sommersa nel (e dal mito) riemergeva nel luogo che portava, inconsapevolmente, il suo nome.

Al centro di questa “città” spiccava, come una delle guglie della Sagrada Familia, il più grande camino minerale mai visto: 55 metri di altezza, un edificio di 18 piani. In quel palazzo naturale, gli scienziati non trovarono i leggendari atlantidi, ma alcune delle più antiche forme di vita esistenti sulla terra. In uno studio pubblicato pochi anni dopo sulla rivista Science, un gruppo di ricerca svizzero-americano ipotizzò che i camini idrotermali, come quello della città perduta, potessero essere stati la culla della vita.
Questi camini idrotermali si sarebbero formati sul nostro pianeta milioni di anni fa quando l’acqua del mare entrò in contatto con il mantello terrestre, lo strato esterno al nucleo che sulla Terra delle origini non era ancora stato ricoperto dalla crosta. In quella situazione e condizione si svilupparono alcune reazioni  tra le quali quella che coinvolgeva un minerale chiamato olivina che decadeva in una nuova forma minerale chiamata serpentino. Tale processo, detto serpentinizzazione, rilascia calore e l’acqua riscaldata veniva così sospinta verso l’alto e fuoriusciva dai fondali marini con il suo carico minerale e biologico innescando la crescita di questa secrezione di minerali e materiale organico.
La famiglia delle peridotiti, alla quale appartengono questi minerali,  presenta comunemente mesh structure, cioè fratture riempite da serpentino, che interessano comunemente cristalli di olivina. Quest’ultima rimane spesso come relitto.

Ecco alcune immagini di queste complicate e “caotiche” strutture

Peridotite

Questo processo dunque di trasformazione oltre a produrre delle vere e proprie opere d’arte lascerebbe emergere, e provvederebbe a sostenere, anche  la vita.

Si tratta quindi di una vera e propria incubatrice naturale in grado di fornire una giusta combinazione di sostanze minerali a quei batteri che producono energia in mancanza di luce. In questo modo è riuscita a sostenersi la vita di organismi elementari in un ambiente altrimenti invivibile.
Quello che abbiamo appena iniziato è un viaggio di andata e ritorno tra Arte e Vita  (tra Techné e Vita) o se preferite l’ulteriore riprova di ciò che affermava Padre Pierre Teilhard de Chardin: «tutto ciò che emerge converge»[1].

Se solo potessimo avere il tempo necessario per descriverlo nel dettaglio! Come ci si arriva qui, quale è stato il processo che ha portato a questa “opera” ?

Guardando queste strutture naturali vengono in mente due considerazioni, la prima: nell’apparente casualità della disposizione di forme e colori sembra sussistere una particolare struttura compositiva e pur non potendo parlare di una vera e propria tecnica non possiamo comunque negare una affascinante e ipnotica armonia artistica del quadro d’insieme.

La seconda considerazione è che, come aveva giustamente rilevato Ralph Waldo Emersono, “la Natura che fece il muratore fece anche la casa”[2] o se volete in parafrasi: la Natura che fece la peridotite, fece anche… Jackson Pollock.

Ecco uno dei più famosi action painting del 1952 di Pollock, dal titolo (guarda un po’), Convergence.

Convergence

In occasione della prima personale  organizzata da Peggy Guggenheim alla XXV Biennale di Venezia, il Time aveva riportato il seguente giudizio su Pollock: “E’ facile notare i seguenti elementi in tutta la sua pittura: caos, assoluta mancanza di armonia, completa mancanza di struttura compositiva, totale assenza di tecnica, ovunque rudimentale. Ancora una volta caos.”

E a noi che abbiamo visto, a differenza di Pollock, la peridotite verrebbe da rispondere nello stesso modo con il quale l’artista rispose: “Niente caos, dannazione!”

Pollock fu irritato dal giudizio, per altro espresso dal critico italiano Bruno Alfieri, e voleva, con il suo lapidario telegramma, affermare che non era arrivato lì, in modo caotico e casuale come l’opera sembrava mostrare.

Pollock voleva escludere con un semplice…twitter che la sua arte fosse CAOS allo stato puro!

A meno che non si voglia considerare CAOS la vita stessa.

Dopo essersi formato sulla pittura del Rinascimento Pollock aveva ripudiato il realismo dei particolari per avviare una trasformazione in grado di incanalare la sua energia magmatica. Cominciò a innalzare, per così dire, il suo camino idrotermale e a trarre ispirazione dai corpi di Michelangelo, dalle forme e colori di Picasso e  Mirò, e iniziò a creare frammenti di natura scomposti.

Un metaforico processo di serpentinizzazione. Inoltre, rimasto colpito dall’arte murale latino-americana (schizzi di pittura colati sul pavimento dai muri) e dalle pitture di sabbia degli indiani Navajo, cominciò a considerare la pittura come un mezzo di guarigione, parte di un percorso sciamanico.

Dal ’47 Pollock iniziò così a dipingere i grandi quadri che l’hanno reso famoso come iniziatore della Action Painting: del segno-gesto, della pittura come secrezione/emergenza organica. Il camino idrotremale svettava nelle sue metamorfosi, salvaguardando la vita in esso contenuta.

La svolta definitiva avviene quando Pollock decise di compiere l’azione rituale suprema: entrare metaforicamente dentro il quadro, nella grande tela disposta a terra, rilasciando il suo dripping intorno ai quattro lati. Pratica che lo porterà a distruggere le figure, proprio come avviene nel rituale Navajo, e a rappresentare, senza ansia di traduzione, il moto dell’inconscio (collettivo) stesso: il gesto taumaturgico.

Ecco come si arriva a questo: come si arriva… dalla natura alla casa e come ci si ritorna.

E forse più di qualunque altra parola, di qualunque altro pensiero calcolante su questi processi che coinvolgono la vita e l’arte/tecnica (la Natura e lo Spirito), potrebbero “contare” i versi di un grande poeta americano che di Pollock fu amico e critico sapiente[3], Frank O’Hara.

Come ci si arriva

Bianca l’aria d’ottobre, niente neve,  facile respirare

sotto il cielo, bugie, bugie ovunque che contorcendosi rantolano

aggrappandosi s’imbrigliano, mica facile respirare

bugie che spiraleggiano in vaghe forme

che spariscono nei corridoi d’appartamenti del West Side

nella prova d’iniziazione, d’essere voluti, non abbandonati, rapiti

tradimento che previene solitudine, vedo la nebbia balzare dentro

e nasconderlo

                        dove sei?

                                       sono qui sul marciapiede

sotto un lampione lunare a pensare come è prezioso il muschio

così speciale e semplice da scalzare a trovarlo

sul lato nord del tronco dove la pietra ti tiene legato

e poi, lacerandosi in soffici e bianche bugie, sparge il suo contagio

attraverso la notte primordiale di un inverno instancabile

che ciò nonostante nei tubi serba calore, nell’Est come nel West side

e il personale intrico dei sentieri nel bianco che s’accompagna agli

squilli di un telefono oltre al fatto che si resta

in silenzio negando il numero, mai dato! anonimo

come il suono dei campanelli di una troika che gemendo

sfreccia nella prima bufera, sta nevicando ora, è già troppo tardi

la neve si scioglierà, ma non ci sarà più nessuno

cordoni di poliziotti per onorevoli tromboni anche loro squillanti

il mondo diventa un tintinnio

                                   dal dito indice

alle vaste case vuote riempite di gente, il riverbero

di bugie e i viticci di nebbia sofficemente avvinti alle gole

ora si può rispondere al telefono, nessuno chiama, un’eco soltanto

tutto confessa che siamo in casa ad aspettare, niente è cambiato

e ci si abbandona a un cielo chiaro stupito per il nostro disappunto

            mai più solo

                                mai più amato

navigando per lo spazio: neanche una volta sei stato mio?

                                                                           West Side?

     per un paio d’ore, ma non sono quel tipo io

                                                                      

                                                                                  1960

[How to get there, da Lunch Poems City Lights Books, The Pocket Poets Series (No. 19), 1964 Trad. G. Ferrara]

La poesia per O’Hara, come la pittura per Pollock (e… la serpentinizzazione per Teilhard de Chardin) è solo fiducia nell’atto creativo. Questo vuol dire che tutto ciò che emerge – nella/dalla pagina scritta, nella/dalla tela dipinta – lo fa  con “…un codice più metabolico che simbolico”. Tutto sembrerebbe avere a che fare “…più con il corpo che con la mente….”; più con la Materia che con il Verbo. Tutto ciò che emerge, una poesia, un quadro una peridotite “…ha trattenuto il gorgoglìo della lenta digestione….”[4] dell’Universo con la fiducia incondizionata (Fede? Abbandono?) nella Fertilità della Materia (come è prezioso il muschio così speciale e semplice da scalzare). Una fertilità che O’Hara sa essere certamente dura umida e stillante, ma che allo stesso tempo è capace di imprimere improvvise accelerazioni, di modificare i normali ritmi di crescita e di presa di coscienza (tutto confessa che siamo in casa ad aspettare, niente è cambiato e ci si abbandona a un cielo chiaro stupito per il nostro disappunto).

Tutto ciò che emerge: dallo squillare dei telefoni all’assenza di una risposta; dalla nebbia che riempie e soffoca lo spazio alla neve che cade per sciogliere le orme dell’uomo sotto il lampione lunare; ognuno di questi “processi” ha bisogno -perchè del processo fanno parte- di parole che cadono sul foglio per mostrarlo, di colori e forme che sgocciolano sulla tela per proteggerlo.

Il processo cioè ha bisogno di se stesso.

Ecco come siamo arrivati qua, continuando a dire bugie  (spiegazioni, teorie, analisi, alibi, scuse) che servono a confondere il processo con il risultato; perdendo la fiducia in questo unico innegabile e incontestabile fatto: il risultato è stato, è, sarà il processo.

Tutto ciò che emerge ha un’unico scopo: convergere.

Come fa un disegno confuso che continua a farsi sotto i nostri occhi. Come fa una parola che …parla per ascoltarci.

Come fa l’enorme “Camino” che, da miliardi di anni, si espande, per…viverci.

 

Riferimenti

[1] – P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana (2010)

[2] – R. W. Emerson, Natura, Donzelli (2017)

[3] – F. O’Hara, Jackson Pollock, Abscondita Miniature (2013)

[4] – P. F. Iacuzzi  Per pranzo e per amore, Postfazione in F. O’Hara, Lunch poems, Mondadori (1998)