La perfezione della neve

A. Zanzotto
Sono molti, tantissimi quelli che parlano di poesia (a cominciare dai poeti stessi) ma sono pochi, molto pochi quelli che si soffermano sulla creazione letteraria cioè sulla produzione del testo quale solidificazione del linguaggio e quindi sul rapporto tra l’esperienza e la parola che la (de)scrive.
Per comprendere la situazione in cui si trovano questi pochi- ed io, in questo momento, tra loro – vorrei ricorrere ad una storiella mutuata da David Foster Wallace [1]:
«Ci sono due fiocchi di neve che scendono giù dal cielo, a un certo punto, giunti in prossimità del suolo, uno fa all’altro: “Ehi, ma cos’è tutta quella roba bianca laggiù? Chiediamo un po’ a quell’albero lì!” Alla domanda, l’abete, canzonandoli, risponde:” Ma…sciocchi che non siete altro, come fate a non saperlo! È neve, che altro?”. I due fiocchi continuano la discesa poi uno guarda l’altro e fa: “Che cavolo è la neve?”».
Parlare dell’esperienza poetica ci trova nella stessa situazione dei fiocchi ignari di quello che c’è in fondo alla…pagina e approssimativamente informati (coscientemente o inconsciamente) su quello che c’era prima dell’attuale stato di fiocchi. Ma qui non si tratterà di “parlare”, perchè l’esperienza poetica è, prima di ogni speculazione, di ogni ragionamento, d’ogni spiegazione: è qualcosa che accade tra la contemplazione e la descrizione, tra l’ascolto e la scrittura.
Cosicché se a un punto estremo del polo (l’Ascolto) ci sono suoni, gesti, sogni, estasi e silenzi mistici, dall’altro (la Scrittura) ecco abbondare le forme solide di tutto questo. Portando alle estreme conseguenze il parallelismo: da una parte c’è il vapor acqueo cioè qualcosa di impalpabile come l’intuizione o l’ispirazione; e dall’altra il ghiaccio, la forma solida del linguaggio, la scrittura (poetica).
Ci viene quindi utile (e in soccorso) l’idea di Rolland de Renéville [2] di seguire una certa strada per comprendere la realtà dell’Esperienza Poetica  e, con essa, pervenire ad una migliore coscienza di sé e della propria collocazione nel mondo: trasformarsi in un fiocco che acquista consapevolezza d’essere anche acqua e neve-.
La strada è quella di mettere in corrispondenza la poesia con la mistica.
Il misticismo (la poesia?) insegna che tutto nell’universo fisico ha una sua controparte spirituale (l’acuta presenza di quello che non vediamo, tocchiamo, ascoltiamo).  La neve in questo senso ha controparti spirituali molto marcate ed evidenti: il suo candore, la sua forza leggera, il suo silenzio.
I metereologi rappresentano la neve come il risultato di un campo di pressioni e dei livelli di precipitazione; i fisici ne descrivono nel dettaglio i cristalli che ne compongono i fiocchi e i processi di nucleazione e crescita che ne hanno determinato formazione e morfologie.
Il mistico (il poeta?) avverte l’energia che la neve incorpora  e le sua valenza archetipica nei confronti della nostra psiche.
L’acqua, in ogni sua forma, è stata sempre simbolo della conoscenza: la pioggia che scende rappresenta la trasmissione  di conoscenza da un luogo alto a un luogo più basso. Il ghiaccio è una trasmissione di informazione solidificata. La neve rappresenta questo stato intermedio tra l’acqua che scorre e il ghiaccio solido. Per apprezzare le implicazioni spirituali della neve- la perfezione- occorre accennare alcune sue caratteristiche (evidentemente sotto gli occhi di tutti!).
Quanti fiocchi servono per fare la neve? Quante totalità?
Innanzitutto un fiocco, per formarsi, necessita, oltre che ovviamente di aria fredda, di altre  due componenti fondamentali: goccioline d’acqua (vapore) e un nucleo, un embrione. Un’ intuizione.
(Tutto, anche la conoscenza , come ci ricorda Kant, inizia per intuizioni, procede per concetti e culmina in idee).
Questo nucleo può essere una particella microscopica di polvere sospesa nell’aria. Perciò la neve  è la sintesi ideale tra aria, acqua e terra. Centinaia e centinaia cristalli di ghiaccio formano i fiocchi che pur essendo entità separate si aggrappano l’uno all’altro per formare una cosa sola. La neve. Ecco in cosa consiste la sua perfezione.
Quale è il simbolismo di tutto questo nel flusso di co(no) sc(i|e)nza?
Quando un messaggio deve fluire dall’inconscio allo stato cosciente o più ”semplicemente” da un maestro ad un discepolo ( o se lo credete: dal poeta che scrive a chi legge!) non sempre questo avverrà in un modo fluido, amniotico; anzi, a volte conviene proprio che questo flusso avvenga in modo lento e graduale magari isolando o ricorrendo ad un PUNTO (un nucleo) fermo da utilizzare come embrione in grado di sostenere una crescita (metafore, aneddoti, storie, analogie sono questi i punti).
Questo è IL Principio della psicoanalisi indipendentemente dai suoi differenti approcci operativi ( Freud piuttosto che Jungh o Lacan).
Se la trasmissione del messaggio, la presa di coscienza,  viene effettuata con modi rigidi e freddi o, viceversa troppo irruenti come una pioggia incessante e torrenziale, qualunque tipo di terreno verrà compromesso ed ogni seme spento.
Ovviamente per Freud la neve è legata alla sfera sessuale-narcisistica e indica l’incapacità di provare piacere per via di istinti repressi. Per Jung la neve nei sogni rappresenta l’isolamento del sognatore molto spesso introverso che non ha abbastanza energia vitale per affrontare la vita.
Anche Lacan attribuisce alla neve una valenza narcisistica ma, a differenza di Freud, lui individua due stadi di narcisismo: quello che fa riferimento alla propria immagine fisica e alla unità del soggetto che ne deriva («mi piaccio o no?») e quello associato al rapporto di riflesso con l’altro: quando l’immagine speculare appare, si stabilisce un canale di trasferimento della libido dal corpo all’oggetto; tale trasferimento risulterà impossibile a chi ha una percezione fallimentare del proprio corpo!
Dopo questa (per molti, immagino, inconcludente) premessa torniamo all’idea di de Renéville: la poesia presentata come una immagine, un’analogia della mistica o se preferite della psiche (Lacan stesso diceva che l’inconscio è strutturato come un linguaggio!).
Per farlo prendiamo la famosa poesia di Andrea Zanzotto, La perfezione della neve [3] e applichiamo ad essa il metodo di de Renéville.
Quante perfezioni, quante                                                          1
quante totalità. Pungendo aggiunge.
E poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri
assideramento, attraverso sidera e coelos
assideramenti assimilazioni –
nel perfezionato procederei
più in là del grande abbaglio, del pieno e del vuoto,
ricercherei procedimenti
risaltando, evitando
dubbiose tenebrose; saprei direi.                                       10
Ma come ci soffolce, quanta è l’ubertà nivale
come vale: a valle del mattino a valle
a monte della luce plurifonte.
Mi sono messo di mezzo a questo movimento-mancamento radiale
ahi il primo brivido del salire, del capire,
partono in ordine, sfidano: ecco tutto.
E la tua consolazione insolazione e la mia, frutto
di quest’inverno, allenate, alleate,
sui vertici vitrei del sempre, sui margini nevati
del mai-mai-non-lasciai-andare,                                       20
e la stella che brucia nel suo riccio
e la castagna tratta dal ghiaccio
e – tutto – e tutto-eros, tutto-lib. libertà nel laccio
nell’abbraccio mi sta: ci sta,
ci sta all’invito, sta nel programma, nella faccenda.
Un sorriso, vero? E la vi(ta) (id-vid)
quella di cui non si può nulla, non ipotizzare,
sulla soglia si fa (accarezzare?).
Evoè lungo i ghiacci e le colture dei colori
e i rassicurati lavori degli ori.                                          30
Pronto. A chi parlo? Riallacciare.
E sono pronto, in fase d’immortale,
per uno sketch-idea della neve, per un suo guizzo.
Pronto.
Alla, della perfetta.
«È tutto, potete andare.»
Qui, (lo capiamo subito), non stiamo parlando di quella poesia vista come un lusso o come una distrazione ma di poesia come strumento della conoscenza (comprensione di sé e del mondo e del posto che in esso l’io ha): in un sol colpo acqua, fiocco e neve!
Già dai primi versi scopriamo così che la vera conoscenza è sperimentale e che la conoscenza dell’io passa attraverso quella della neve partendo, appunto, da alcune… osservazioni scientifiche!
Quante perfezioni, quante/quante totalità…: abbinare la quantità all’Uno è come pretendere, nella nostra storiella iniziale, che il fiocco capisca la neve. É solo alla fine del ciclo che l’acqua saprà d’essere goccia, fiocco, neve, ghiaccio e, nella ring –composition (Pronto. A chi parlo?), riprendere il suo corso.
La neve dunque come la psiche è un oggetto che è in sé una cosa, ma si compone di una pluralità di  elementi (fiocchi, cristalli) ciascuno dei quali è in se un riflesso della perfezione. Lo  sguardo verso la neve si fa metafora di un percorso verso la conoscenza e dunque verso una esigenza di sistemare, mettere ordine, in una parola: di perfezione[vv. 1-10].
Ma la vera conoscenza è identità del soggetto e dell’oggetto e infatti  la situazione enunciativa dei primi versi sembra rimodellarsi : il tema è sempre la celebrazione della neve ma al pronome di prima persona, al linguaggio e baricentro della prima persona, subentra una prima persona plurale (ci soffolce).
All’Io del fiocco comincia a subentrare una Identità!
Questo riposizionamento rappresentativo (da io a noi, da io a tu) si accompagna all’immersione del soggetto in un paesaggio, in un ambiente che sempre più si profila come un soffice abbraccio, come una spinta erotica di una libido: c’è una immersione che è anche comunione fra soggetto, il tu e il paesaggio: il fiocco è attratto, si unisce alla, diventa neve!
La vera conoscenza è quella dell’assoluto: contraddizione in termini ma meravigliosamente rappresentata dal fiocco che per essere ab-solutus (sciolto) si aggrappa agli altri fiocchi e poi si sciogli in-con essi![vv.11-25]
Nei versi successivi assistiamo all’epifania dell’Esperienza Poetica: il Poeta tematizza l’atto che ha condotto alla composizione del testo che stiamo leggendo e pare suggerire che:
«è vero, al suo apice l’uomo che scrive una poesia in piena libertà e in piena coscienza del come e del perché del suo operare, crea un mondo ma il meccanismo di produzione può essere da lui ignorato».
Da qui discende un uso metaforico del linguaggio (quello della comunicazione telefonica che viene interrotta): non pronto, chi parla? ma pronto, a chi parlo? E ancora da qui si apre la problematizzazione dello statuto della poesia: «a chi parlo, a chi parla il linguaggio che parla in me?»;  sembra cheder(s|c)i il poeta [vv.25-36].
Socrate lo aveva anticipato chiamandolo, il poeta, un ispirato, un delirante, uno strumento degli dei.
E allora ecco la strada di de Renéville sulla quale incontriamo il nostro Zanzotto. Ci sono due tipi di poesia: una retta dall’attenzione e dalla piena coscienza (diremo una poesia intellettuale); l’altra retta dalla passione, dal delirio, dal sogno (una poesia inconscia). Entrambi però attengono alla conoscenza e poichè oggi più che mai, con le nuove scoperte della neurobiologia (vedi Edelman, Damasio, etc…), si fanno sempre più labili i confini tra meccanismi intellettuali e quelli fisiologici ed emozionali, il poeta in ogni caso sarà schiavo incosciente oppure il signore di quest(o|i) process(o|i) di conoscenza.
Queste due famiglie di poeti, anche se su strade diverse, raggiungono però la stessa realtà: l’unità , o come dice de Renéville, «la risoluzione di ogni molteplicità». Ci sarebbero quindi poeti che fanno questo spingendo la loro attenzione fino ad illuminare l’intero cerchio della vita psichica e altri prevalentemente intenti a sopprimere un ipotetico centro di coscienza.
Evidentemente le due famiglie si sovrappongono perfettamente se questo sedicente «io cosciente» si riduce ad una illusione (rappresentazione , maya) che muta senza sosta.
Alla fine quindi è solo l’espressione verbale che potrà distingure una famiglia dall’altra.
Il poeta di una famiglia parla di ciò che conosce (o che ritiene di conoscere) facendo rivivere nelle “immagini” quello che per lui è la realtà massima: cose, idee, tratti della natura umana e gli sforzi per conoscere tutto questo. Il poeta dell’altra famiglia invece ci mostra la sua battaglia contro le illusioni, lasciando parlare le sue passioni, le manie i suoi sensi per tenerli a freno o per rinchiuderli nella gabbia di una parola misurata.
Qui Zanzotto opera la sintesi di questi due percorsi che, potremmo quindi eleggere a definizione di Esperienza Poetica: poesia liberata da ogni necessità estranea al proprio fine che è quella comunione tra Conoscenza (acqua), Libertà (fiocco) e Unità (neve).
E quando Zanzotto ci accompagna lungo questa strada lo fa come qualcuno che, da bambini, ci portava fuori dopo una copiosa nevicata:  da soli, cioè da fiocchi, non avremmo potuto vivere questa libertà, non avremmo potuto conoscere la Perfezione della neve.
Riferimenti
[1] – D. F. Wallace, Questa è l’acqua, Einaudi (2010)
[2] – L’esperienza poetica in R. Daumal , Poesia nera e poesia bianca, Castelv