Gli Sguardi i Fatti e Saunders

Possiamo davvero definirlo un romanzo, l’ultimo libro di George Saunders, Lincoln nel Bardo?
Nel libro c’è molta commedia dantesca. Ci sono echi di gran teatro shakesperiano. C’è una storia metà cantata e metà raccontata sull’epoca di Abraham Lincoln e su vicende pubbliche e private, (privatissime!) della Nazione americana, del Presidente e dei figli dell’una e dell’altro. E c’è anche un sottofondo epigrammatico, perdurante e misterioso da antologia di Spoon River per intenderci.
Prima di leggere questo libro bisognerebbe quindi predisporsi nel modo giusto: non affrontarlo come un romanzo moderno (fin troppo moderno nella concezione e nella forma) ma come se fosse una Odissea al contrario dove è Ulisse a cercare Telemaco; oppure una ballata di Bob Dylan o Francesco De Gregori. Solo così si potrà godere in pieno dell’esperienza di lettura.
Il Bardo è una specie di limbo del lamaismo tibetano , un luogo-tempo, dopo la morte, in cui l’anima si separa dal corpo in attesa di reincarnarsi. Nel Bardo tibetano si ricordano le vite passate  e si “vive” una fase di studio e di attesa per “definire” la successiva:  “… come è noto si suppone che lo stato intermedio tra due esistenze terrene duri complessivamente 49 giorni, [e] che le apparizioni delle divinità durino un numero di giorni pari a 7 o a un multiplo di 7…” (Detlef-I. Lauf, Il libro tibetano dei morti, Ed. Mediterranee 1992, pg. 111)
Dunque, non è il limbo di cui ci parla Dante,  e meno che meno è la sua grande invenzione, il purgatorio, quale luogo di attesa delle anime in cerca di trovare un posto in paradiso dopo un periodo di espiazione. In questo luogo nasce la storia del libro di Saunders, e si sviluppa come un vero e proprio dialogo tra anime sospese: quelle vive in attesa di morire (le centinaia di migliaia di figli della nazione americana che si uccideranno nella guerra di secessione) e quelle morte in attesa di rinascere (il figlio del Presidente Lincoln e gli altri improbabili oltre-personaggi del Bardo).
Nella collezione animata (è proprio il caso di dire) da Saunders c’è spazio per Abraham Lincoln, il Presidente repubblicano che ha abolito la schiavitù, ma anche per il figlio, il piccolo Willie Lincoln che muore a 11 anni lasciando il padre disperato e inconsolabile, e per tutta la compagnia del Bardo formata da figure stravaganti come Hans Vollman, Roger Bevins III e il reverendo Everly Thomas, l’unico ad essere consapevole di trovarsi nel (suo) purgatorio.
Ma che cosa è quindi veramente Lincoln nel Bardo di George Saunders?
Questa stessa domanda circolò intorno ad uno scritto di uno dei nostri più grandi poeti, Andrea Zanzotto. Sto parlando de Gli Sguardi i Fatti e Senhal del 1969 che Zanzotto scrisse durante gli anni dello sbarco dell’uomo sulla Luna.
In quell’occasione fu lo stesso Zanzotto a “definire” questa sua opera, indefinibile da altri, come:
“Protocollo relativo alla I tavola del test di Rorschach, specialmente al dettaglio centrale; oppure: cinquantanove interventi-battute di altrettanti personaggi (meglio che uno solo) in colloquio, a modo di «contrasto», con un’altra persona, stabile, che parla tra virgolette, e che è lo stesso dettaglio centrale. Ma anche: panorama su un certo tipo di filmati di consumo e chiacchiere più o meno letterarie del tempo. E ancora: frammenti di un’imprecisata storia dell’avvicinamento umano alla dealuna, fino al contatto. Ecc.” (da, Poesie e prose scelte, Milano – Mondadori: I Meridiani 1999, 373)
Con le dovute distinzioni anche l’opera di Saunders potrebbe essere definita in tanti modi, esplicitando, così,  quel «Ecc.» a chiusura della definizione zanzottiana.
Vorrei azzardarne qualcuno.
Lincoln nel Bardo potrebbe essere un protocollo relativo a un mandala tibetano e ai suoi tre importanti principi: avere disciplina, perseverare e, dopo aver finito, ricominciare. Saunders ha pensato per anni a questo romanzo, sin da quando ha sentito un aneddoto sulla morte del figlio di Abraham Lincoln, avvenuta durante gli anni della Guerra Civile americana. L’aneddoto diventa il centro di questo mandala: sconvolto dalla perdita del figlio Willie, il Presidente va a trovare la salma del figlio nella cripta dov’è seppellito, nel cimitero di Oak Hill a Georgetown (Washington).
L’uomo più potente della Terra può decidere su tutto, sulla pace e sulla guerra, sulla schiavitù e la libertà e quindi può farsi dare le chiavi dal guardiano, per rivedere un’ultima volta il corpo imbalsamato del figlio e riabbracciarlo ancora, per un ultimo saluto. L’ improvvisa apparizione del Presidente Lincoln, un uomo in carne ed ossa, che tocca suo figlio morto (la forma malata come la chiamano le anime sospese del Bardo) creerà un certo scalpore in entrambe le comunità, quella dei vivi e quella dei morti. Per tutte le forme malate (anche per le nostre), l’irruzione presidenziale diventa un evento che rimette in discussione molte cose, che rinvigorisce la speranza tra i sospesi di qui e quelli di là: forse si può davvero cancellare tutto, come si fa con un mandala alla fine dell’opera e ricominciare di nuovo; davvero potrebbe essere facile tra-passare e tornare indietro.
Ma questa opera può essere vista anche come un insieme di interventi-battute di altrettante anime (vive o morte, non ha importanza) con un’altra anima in attesa  che è, come detto, il dettaglio centrale del mandala.  E nella sua evocazione omerica, il Bardo immaginato da Saunders diventa un’esperienza letteraria profonda, un sogno onirico che si costruisce anima per anima, pezzetto per pezzetto, in cui i personaggi mettono in scena quella che è la nostra grande storia, la vita, con tutti  “i sangui e gli Es a milioni” , come direbbe Zanzotto, che la scrivono e la leggono. Così i personaggi sembrano realmente incarnarsi, farsi, cioè, umani pur essendo spiriti, ognuno di loro ha una sua vicenda personale e una sua storia particolare: quanti viaggi nell’Ade sono qui richiamati? Quanti gironi sono attraversati? Saunders usa linguaggi diversi per personaggi diversi; nessuno parla allo stesso modo: alcuni stropicciano le parole, altri provano a emulare grandi oratori.
Ne esce fuori un coro, che mette in scena la grande storia americana e le fa fare i conti non solo con la guerra, non con fatti strettamente storici o personali, ma con l’intera esistenza.
Ma cos’altro è Lincoln nel Bardo? É  una soggettiva su un certo tipo di sensazioni e esperienze oniriche dei nostri vari io (ancora gli Es a milioni), dell’ avvicinamento di ognuno a Yama, Giudice dei morti e Signore del Sud, colui che stabilisce la rinascita, appropriata per ciascuno, in base ai suoi meriti e ai debiti karmici e, viceversa, dell’eterno avvicinamento di Yama agli uomini e alla vita essendo stato, Yama, il primo uomo a morire, espiare e accedere al Bardo. Ecc.
“Niente altro che questo” è Lincoln nel Bardo, una storia di anime legate tra di
loro in una Notte (che è lo spazio temporale in cui si svolge la vicenda del libro, la nostra vicenda) e in un territorio dove tutto è possibile: la logica può convivere con l’analogia, il razionale con l’assurdo, le vicende vere con quelle inventate. Una notte e un luogo dove la “storia” deve essere raccontata come se fosse contemporaneamente una tragedia, una farsa, una cronaca, Storia, e dove i contrari si complementano in una “realtà” più vasta e sorprendente nell’ambizioso tentativo di rispondere ALLA Domanda:
«Come si può vivere, amare e compiere grandi imprese, sapendo che tutto finisce in un nulla?»; e suggerendo una risposta:
«Restando disciplinati, perseverando e, alla fine, ricominciando».
Proprio come si fa con un mandala che dopo essere stato pazientemente realizzato, granello dopo granello, viene spazzato via e disperso nel nulla perchè quel nulla è certezza di una promessa:
Poi mio padre mi toccò la fronte con la sua. Caro figliolo, disse, tornerò. Te lo prometto.
willie lincoln