Notte amazzonica
(Dal taccuino di viaggio, Ecuador, agosto 2004)
“Mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo”
Giuseppe Ungaretti
La notte barcolla nel frinire di centomila insetti. Il buio liquido della selva ci inghiotte: ci siamo solo noi due, davanti alla capanna, seduti in silenzio in riva al rio Napo. Non ero mai stata ad ascoltare la notte.
Quasi per caso siamo arrivati qui, tra i Quichua della comunità Cuyaloma, nell’Amazzonia ecuadoriana; ci separano da Quito sei ore di bus e di verde profondissimo tra montagne, vallate e maestosi vulcani innevati. Nella comunità vivono 80 persone; più della metà sono bambini, agili come scimmiette: corrono saltano si arrampicano ovunque, ci scrutano curiosi e sorridono. Carlos invece non ride mai: la nostra guida ha gli occhi e i capelli neri e la carnagione colore del cuoio, come la terra. Ha 27 anni, ma l’esperienza di un uomo maturo: sembra incarnare l’orgoglio e la fierezza del suo popolo. Protetti dall’abbraccio della selva, i Quichua sono sopravvissuti al tempo, alla storia, all’omologazione culturale. Così come la loro lingua, una fresca musicalità scandita da parole brevi: Ali puncha significa “Buon giorno”, Ali tuta, “Buona notte”; pagrachu, invece, “grazie” .
Da qualche giorno siamo partecipi della vita della comunità e una giostra di immagini rulla nella mia testa: la luce del sole che inonda la nostra capanna all’alba, gli alti stivali di gomma per addentrarci nella selva, Carlos che impugna il machete e si fa strada tra le fronde. Gli alberi secolari della selva possiedono uno spirito: prima di recidere un ramo bisogna chiedere loro perdono, per non essere perseguitati con forti dolori. Pochi segni tracciati sul volto con una pintura natural e veniamo eletti – per gioco – ‘re e regina della selva’, secondo il costume Quichua. Carlos ci invita ad appoggiare la mano sopra a un termitaio: in pochi secondi una scia di insetti ci ricopre il braccio come un guanto; ‘spalmando’ le termiti si produce un odore intenso: un ottimo repellente per le zanzare. Soltanto il primo dei rimedi che offre la selva, straordinaria farmacia naturale, con piante per prevenire la caduta dei capelli o radici per curare il raffreddore. Vi sono due erbe preziose, la “Guayusa”, per non avere paura dei serpenti, e l’Aiahuasca, che dona agli sciamani una visione superiore. Il nonno di Carlos, l’abuelo Bartolo, è uno sciamano: conosce le meravigliose corrispondenze dell’universo e può operare guarigioni incredibili, come quella che ha restituito l’uso delle gambe ad una donna costretta in sedie a rotelle. Dopo aver tentato tutte le terapie in occidente, è giunta qui, come molte persone da ogni parte del mondo. Io ascolto, sospiro e gli confido un mio piccolo, fastidioso disturbo: un mal di testa che da più di venti anni annebbia le mie giornate.
Ma ecco un’altra immagine lampeggia tra i pensieri: la discesa del rio Napo aggrappati ad un bote, la camera d’aria di un camion; quello che per i Quichua è un mezzo di trasporto abituale, per noi, trascinati nelle rapide del fiume, è una scarica di adrenalina pura. Come l’impeto delle cascate della selva: ci arrampichiamo tra le rocce, sotto il salto delle acque, per trarne tutta l’energia. Perfino nell’acqua, così come nelle pietre, abita uno spirito. Sento ancora sulla pelle il saluto Quichua, un rito purificatore che si posa su di noi come un alito di foglie: lo sciamano ci strofina sul corpo piante medicinali scelte, poi le fa bollire; respiriamo l’infusione, sudando intensamente, poi il curatore, mastica – insieme a parole sconosciute – una radice, e la sputa sul nostro capo e sulle braccia, soffiando via dal corpo il male. Lo fa con una dedizione assoluta, quasi paterna. Forse è la suggestione, o la fisicità di ogni momento, ma sembra che ogni cosa d’un tratto abbia un posto nell’universo, come le note nella musica. Il popolo Quichua è un cuore che pulsa nella selva, immensa creatura con un corpo e un’anima. Misteriosa e sconfinata come la notte.
È difficile dormire nelle notti amazzoniche, vuoi per le pulci nel materasso, per le voci che fanno vibrare l’aria, per il caldo appiccicoso o per la pioggia che per ore frana sulla nostra capanna di legno e paglia. Senza luce, quasi senza difese, ci sentiamo più forti e più deboli insieme. Per ritrovarci infine seduti in questo buio, attraversato dalle impalpabili presenze che si vestono della notte per farci sentire piccoli. Non resta allora che inchinarci alla selva – dove tutto può accadere – per sussurrare una parola soltanto: pagrachu. “Grazie”.
PS: Il mio mal di testa, a distanza di due mesi, non è più tornato.