Il sorriso di Rio: Visita a Rocinha, la più grande delle favelas di Rio
Il sorriso di Rio
Visita a Rocinha, la più grande delle favelas
di Eleonora Rossi (dal taccuino di viaggio, luglio 2015)
Rio De Janeiro ci accoglie con il sorriso spumeggiante delle onde, le braccia spalancate del Cristo Redentore, la gentilezza della sua gente. Lo dicono in tanti, ma corrisponde al vero: qui si sente pulsare la vita. Le spiagge e le vie traboccano di musica, di voci, di energia.
Il colore fiorisce ovunque: nella natura incantevole, sui muri di cemento, sulle stoffe, nel dedalo delle favelas, che intorno a Rio de Janeiro sono circa settecento.
Sì, vale davvero la pena di dedicare una giornata a una di queste “città nella città”: le ho viste fotografate, raccontate nelle biografie dei calciatori brasiliani che sono partiti da lì alla conquista del mondo, Pelè, Garrincha, Didi e molti altri, grandi nomi che si possono leggere a chiare lettere su un muro minuscolo di Rocinha. Con i suoi oltre centomila abitanti, Rocinha è la favela più grande della metropoli. Le condizioni di vita qui sono leggermente migliori rispetto a Cidade de Deus, la baraccopoli più povera di Rio; ma Rocinha è comunque il terreno di scontro di bande che si contendono il controllo della zona e le infrastrutture e i servizi di base sono estremamente carenti. Una visita a una favela è raccomandata con una guida brasiliana, non solo per la sicurezza, ma nel rispetto delle persone che vi abitano. Affidarsi alle agenzie che promuovono il turismo sostenibile offre l’occasione di osservare da vicino la cultura delle favelas e di contribuire ai progetti per i giovani che vivono lì, studenti e artisti.
È Gloria, la nostra guida, ad aiutarci a demolire i pregiudizi, a mostrarci come, nella situazione complicata e per certi versi estrema delle cittadelle brasiliane, la vita possa cambiare. Grazie alle storie di persone che hanno deciso di non arrendersi.
La prima tappa è l’incontro con un simpatico musicista, che ci invita gioiosamente a muovere i primi passi di samba insieme a lui; mio figlio Edo saluta il suo cagnolino (che indossa occhiali da sole), mentre io non resisto e compro il suo cd: adoro la musica brasiliana.
Dall’alto delle favelas si intravedono le spiagge e i quartieri ricchi di Rio; per un beffardo capovolgimento, come recita un detto popolare della città, «I poveri guardano i ricchi con lo sguardo verso il basso e i ricchi guardano i poveri con lo sguardo verso l’alto».
Le vie brulicano di bancarelle e piccolissimi negozi. Le strade sono strettissime, le scale ripide, gli spazi angusti (per noi sarebbero claustrofobici), tante “celle” affastellate una sull’altra; ma le vie sono pulite, ordinate, dignitose. I bambini giocano nei cortili delle scuole, edifici di cemento ricoperti di murales variopinti. Osservo il piccolo Edo che si guarda intorno curioso, per nulla intimorito.
La favela è molto diversa da come la immaginavo. Probabilmente Gloria ci sta mostrando i quartieri più tranquilli, penso che non tutte le baraccopoli siano così accoglienti. Anche il clima è gradevole: è il loro “inverno”, quindi la temperatura non supera i 25 gradi. È mattina, tutti sono operosi, non ci sono persone che mendicano: c’è voglia di riscatto, di impegno, di farsi conoscere. Proprio come fanno gli allievi di Capoeira, che coinvolgono i turisti nella loro danza spettacolare, una delle più alte espressioni folcloristiche ed artistiche del Brasile. La Capoeira accompagnò il popolo brasiliano fin dal 1580. La sua origine è nera: gli schiavi africani Bantù, deportati dai colonizzatori portoghesi in Brasile nell’area di Bahia, portarono con sé i loro rituali e la loro cultura. Questi schiavi venivano impiegati come mano d’opera in lavori massacranti nelle piantagioni di canna da zucchero; al termine delle loro giornate si riunivano e ripercorrevano con la memoria il loro passato di libertà con i canti, le danze, le musiche ed i riti: tra questi uno diventò Capoeira, una particolare forma di autodifesa e di lotta mascherata da rituale. Molti schiavi in questo modo riuscirono a difendersi dai soprusi e dalle frustate dei coloni europei, ad eliminare i sorveglianti bianchi che li vessavano ed a fuggire nelle foreste dell’interno del Brasile, costruendo in esse dei villaggi (Quilombos), in cui ricominciare a vivere secondo le loro abitudini e liberi da persecuzioni.
Assistiamo incantati alle acrobazie ritmate dei giovani danzatori. È spettacolare.
Applaudiamo la loro forza, l’abilità, ma soprattutto il loro sorriso. Il sorriso di Rio.