Chi muore qui, va dritto in paradiso

Varanasi, città sacra dell’India.

Nella luce del mattino, in lontananza, Varanasi ci appare come una dea distesa sul fiume.

Ma è solo una visione dal treno, l’unica fotografia silenziosa della città sacra dell’India che resterà nella memoria.

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Entrati in città, riusciamo a fatica a scendere dal vagone, travolti da un fiume umano di persone. La stazione è un tappeto di corpi adagiati sul pavimento.

La temperatura è spaventosamente alta: 39 gradi. Riusciamo a fare solo pochi passi, poi siamo costretti a farci caricare da un ciclorisciò traballante.

L’uomo che traina il veicolo non è giovane e fa uno sforzo incredibile. Per noi è faticoso già stare seduti nel caldo umido e opprimente… cerchiamo di non pensare a quanto possa essere duro pedalare trasportando due persone! Eppure è il lavoro più diffuso e i conducenti dei ciclorisciò fanno a botte per accaparrarsi un cliente.

Chi muore qui va dritto in paradiso; per qualsiasi Hindu morire a Varanasi (l’antica Benares) è un onore, e permette di essere ammessi alla casa di Shiva nella pace celeste, liberandosi dal tremendo giogo delle reincarnazioni.

Al Burning Ghat una guida locale descrive il rito della cremazione: il corpo del defunto viene massaggiato con cinque sostanze (ognuna rappresenta un elemento vitale), poi rivestito di bianco e calato nel Gange, quindi posto sulla catasta di legno. Si gira poi, per cinque volte, attorno al rogo. Mentre la guida descrive i passaggi del rito, il fumo di un corpo cremato ci trafigge gli occhi e la gola. La guida ci spiega che non possono essere bruciati i corpi di bambini, donne gravide, lebbrosi, o di morti a causa del morso di un serpente. Ascoltiamo le parole e “fotografiamo” nella memoria: qui è proibito fare scatti fotografici.

La cittadella è un labirinto intricato. Impossibile non perdersi.

Varanasi è un girone dantesco, un palcoscenico rovente: in scena una religione coloratissima, nell’impasto invadente di odori: incenso e fiori, spazzatura e escrementi di vacche sacre, che deambulano anche nelle vie più anguste. Ovunque fumi e abiti sgargianti, donne ornate di seta e gioielli, santoni mistici. E dolci, esili bimbe che vendono fiori e piccole luci da deporre sul fiume, come una preghiera.

Sacerdoti, fiori, abluzioni nell’acqua. Ci sediamo proprio sulla riva del Gange, su un tappeto lercio e umido, togliendoci le scarpe. La nostra pelle continua a sudare, e nel torpore ogni cosa intorno – la gente, le maschere, il tramonto e le piccole luci sul grande fiume – sembra sfumare in un sogno confuso, al rallentatore.