“In una sera di Carnevale” di Enrico Scavo

In una sera di Carnevale

Enrico Scavo

L’opaco lume del candeliere sagomava l’inquieto volto di Gesualda. Sul davanzale della cieca finestrella, l’ombra danzante sembrava sospingerle lievemente la mano che, svogliata, sfogliava le pagine di un volume. E le pupille, sgranandosi, vagolavano veloci tra le parole cercando consolazione a un impellente desiderio di felicità terrena, inarrestabile. Di come le donne del secolo appagavano simili appetiti Gesualda sapeva ben poco. Le sue prime nozioni del mondo si erano esaurite nelle voci, frammentarie e affiochite, che fanciullina aveva colto attraverso le pareti di palazzo Bevilacqua. Quando la campanella del portone risuonava e si accresceva lo scalpitio della servitù intenta ad imbandire rinfreschi d’acque, sorbetti e cioccolate, la piccola correva ad appoggiare l’orecchio alla parete. Rinchiusa nella sua stanza, forse desiderosa null’altro che di ritrovare le antiche attenzioni della buona balia, prima fra le donne terrene nel suo cuore, Gesualda apprendeva dei fasti della nobiltà ferrarese: i balli organizzati dal legato in Castello; il palio delle Barchette sul Po di Volano; i tornei cavallereschi ricchi d’invenzioni e di macchine; le processioni che, come la tiepida carezza d’una stella cadente, illuminavano le vie della città, dalla Piazza dei Teatini fino a via degli Angeli. Quei frammenti di vita, furtivamente rubati alle conversazioni delle dame e riscoperti tremando nell’Ariosto e nel Tasso, avevano arricchito la tavolozza immaginifica da cui Gesualda attingeva per riempire i vuoti e i silenzi. Riponendo i balocchi regalatile dal padre per apprestarla al chiostro, la bambina, chiudendo gli occhi, riscriveva storie di amori, guerra e morte.

Lasciando alle spalle l’età dell’innocenza e abbracciando il noviziato, Gesualda smarrì tutto quel mondo di illusorie evasioni. La normativa sulla clausura prevedeva che le giovani più istruite dimenticassero e rinnegassero le letture, i dipinti e le musiche che avevano foggiato le loro anime. Negli ultimi anni l’autorità spirituale sembrava accanirsi contro ogni reminiscenza laicale che potesse imperversare, «talpa» immonda e nefasta, nel cuore delle giovani spose di Dio: l’Ordinariato diocesano non faceva che mandar fuori editti, stilare indici di libri proibiti – arrivando persino a inventariare, a fini precauzionali, tutti gli scritti disponibili nelle botteghe dei librai –, reclutare nuovi e più rigoristi inquisitori. Sebbene Gesualda potesse fare a meno del Tasso, ancora vivido nella sua mente, le era più difficile allontanarsi dai pentagrammi. Spinta dall’amore di quell’arte e dall’ammirazione per la grande compositrice Vittoria Aleotti – la cui fama aveva valicato le mura estensi richiamando illustri forestieri per ascoltarne il concerto –, non si era opposta alla decisione paterna pregando di essere aggregata alle agostiniane di San Vito.

Anche se al tempo del suo noviziato la pratica musicale di questa istituzione si fosse già alquanto contratta, di certo non si poteva negare che il canto fosse ancora l’attività più virtuosamente coltivata da queste monache. Oltre all’intonazione dei sacri uffici, con il beneplacito della badessa Margherita Celeste Trotti – così ben erudita nella maniera di aggirare la clausura – furono approntati spettacoli musicali dal carattere profano nei quali, per sopperire all’assenza di interpreti maschili, si fornivano alle cantanti farsetti e calzoni. La prima ad indossare abiti virili fu sorella Angelica, che di soave aveva il nome ma non la tenorile voce. Per rendere più credibile quel travestimento, fasciava stretto il seno e contornava le carnose labbra di una finta peluria di lana grezza. Così agghindata aveva in più occasioni tenuto tra le dita nodose gli stretti fianchi di Francesca Matilde che, inebriata da quel tocco, si era sciolta languidamente, all’unisono di tutto il variegato gregge di operaie del Signore, nei versi «Pur ti miro o mio tesoro».

Pare che la notizia di quei licenziosi spettacoli giunse all’Ordinariato dalla voce di una conversa, gelosa di Angelica. Benché l’autorità esigesse la massima segretezza, la notizia presto fu sulla bocca di tutti. In ragione di quello scandalo il vescovo fece frettolosamente stendere e affiggere alla porta dei diciassette monasteri cittadini un nuovo editto nel quale si proibiva «sotto pena di scomunica maggiore da incorrersi ipso facto alle monache medesime il comparire travestite et in abito secolare a recitar comedie, et opere, con canto musicale, o senza alle porte della loro clausura, provvedimento da estendersi anche a tutti, e singoli dell’uno, e l’altro sesso, e di qualsivoglia stato, grado, e condizione, tanto ecclesiastici, come secolari, che intervenissero a dette opere, o comedie, o parlassero, discorressero alla porta della clausura con dette monache così travestite, et in abito secolare come sopra». Si andavano ponendo restrizioni anche a quei lasciapassare occasionalmente concessi a membri del secolo per piccole fatture da farsi all’interno delle sacre dimore. Le ragioni di questa ulteriore limitazione vanno forse ricercate nell’incidente accaduto presso le monache di San Guglielmo. A un facchino era stato consentito di violare la clausura per la portatura di alcuni apparati. I poveri abiti e l’impaccio ne celavano appena la somiglianza, nel sembiante come nelle doti musicali, all’Apollo del Dosso Dossi. Sbagliando ingresso, il giovane si era presentato alla porta degli orti su via delle Pettegole. Non avendo alcuna risposta ai suoi ripetuti richiami e pensando d’essere in anticipo, aveva deciso di attendere lì davanti qualche tempo intonando una canzonetta. Una monaca che passeggiava di là dal muro, rapita dalle allusive rime del canto, corse ad aprire l’uscio. Solo gli ufficiali del tribunale vescovile incaricati del caso conoscono i particolari di quell’incontro. Tuttavia, la vicenda eccitò lo spirito narrativo degli illetterati del mercato di San Giorgio. La badessa, constatando l’assenza della sorella durante le preghiere dell’ora Nona, si mise a cercarla per ogni dove. Preso il sentiero degli orti, giunse all’estremità orientale della muraglia di recinzione: la monaca e il facchino giacevano su un letto d’erba, in dolce reciproca resa. Alla peccatrice sedotta da un canto d’amore non fu più concesso di indossare l’abito, frettolosamente convertito in guanciale. E di certo non fu migliore la sorte di quell’Orfeo, condannato a tre anni di remi sulle galere papali per sfiancare quella sua voglia di cantare alle porte dei monasteri.

Gesualda aveva ascoltato queste e simili storie sussurrate nello scriptorium dove ricopiava la corrispondenza della superiora. La mano, catturata dal fascino di quegli ignoti e proibiti desideri, smetteva di scorrere per poi riattaccare al punto sbagliato. Queste distrazioni erano costate troppe carte e la badessa, preoccupata dalla sua svagata condotta, decise di assegnarla al momentaneo rigore e alle umili mansioni delle cucine. Quell’incarico si rivelò un prezioso apprendistato: le amorevoli e dolci prostitute riformate, addette alla spennatura del pollame, la resero partecipe di quelle leggi di natura che, guidando il cuore d’una donna, ne gonfiano il ventre di vita. Le gote di Gesualda si arrossavano di ingenuo stupore e la mente tornava a scavalcare le mura sospinta da nuovi pensieri. Certo la sorprendeva che si potesse, seppur con tutte le cautele del caso, intrattenersi su simili questioni. E la naturalezza e il distacco con cui le donne raccontavano del loro vergognoso passato la riempivano di inspiegabile, devota ammirazione. Forse perché le parevano la reincarnazione di Maria di Edessa: sedotta da un monaco e indotta al meretricio, la santa fu poi ricondotta ad una vita di penitenza dallo zio Abramo. O forse perché il vociare delle riformate suonava ben diverso dal lascivo pettegolezzo che serpeggiava tra le più virtuose professe di quel chiostro. Così Gesualda s’era fatta l’idea che il pettegolezzo, malcostume tanto diffuso a quei tempi, si annidasse maggiormente in quei disgraziati individui oppressi nella loro piena manifestazione da una forza preminente che, per bilanciare quel sacrificio, dona loro una forma di apparente libertà da sussurrare e riscoprire nei solitari pensieri notturni.

Anche Gesualda si abbandonava ora a quelle fantasie, mentre la candela si consumava nella lettura delle Armi necessarie alla battaglia spirituale. In quelle pagine la beata clarissa Caterina Vigri ricordava il lungo tempo di «indicibile amaritudine» sopraggiuntole allorché «la dolce presenza di Cristo Gesù le era stata negata». Finché la notte di Natale la Vergine Maria, invocata in preghiera, le apparve «con il suo dilettissimo Figliolo in braccio et con grande benegnitate glielo porse»: l’odore della purissima carne d’infante investì Caterina, travolgendola. Lo straordinario racconto, frutto di un’estasi mistica esaltante, produceva in Gesualda una certa repulsione. Quasi pareva che gli occhi, posti a bastione del suo credo, non volessero soffermarsi su quelle parole: invece di persuadere il suo animo al mistero della fede, le inducevano ostinatamente gli odori delle cucine e, con essi, i racconti delle riformate.

L’annoiato silenzio della piccola cella fu rotto d’improvviso da una mano che bussava alla porta. Le tempie della giovane iniziarono di colpo a pulsare e la nervatura a fremere tutta. «Gesualda, è giunta l’ora. Dobbiamo andare». Era quello il segnale convenuto che aspettava ormai da qualche notte. Dall’altra parte dell’uscio vi era suor Barbara, al secolo Margherita, figlia del conte Francesco Fiaschi, illustre Giudice dei Savi. Le due giovani avevano celebrato la professione solenne lo stesso giorno. Per l’occasione le loro famiglie – note committenti e protettrici dei musici della città, tanto che i rispettivi palazzi erano appellati «accademie» – avevano deciso, per festeggiarne l’aggregazione al clero regolare e ingraziarsi il sindaco di quel monastero, di finanziare l’esecuzione di una messa cantata. Ascoltando le patetiche note eseguite dall’Accademia della Morte, le fanciulle, l’una a fianco all’altra, avevano pianto lacrime di precoce nostalgia e sconsolata accettazione. Tuttavia, a differenza della più arrendevole Gesualda, Barbara malcelava il risentimento per le privazioni materiali imposte dall’istituzione. Nonostante i privilegi concessi al suo rango, che di fatto la esentavano dalla ruvida e sgraziata compagnia delle donne di umili origini, mal tollerava il voto di povertà e clausura. Non soltanto perché ciò metteva in discussione i suoi natali, ma ancor più per il fatto che le venivano negati i più naturali vezzi femminili che, a suo credere, ben poco c’entravano con la fede: non più monili e ricchi tessuti, non più deliziosi profumi, non più specchi nei quali accarezzare la sua figura. Delle sue insistenti querele soltanto una fu accolta. E fu il vescovo in persona a interessarsene impugnando la penna per comandare al vicario generale: «vi è la giovine Fiaschi ultimamente entrata nel monastero di coteste monache di San Vito, la quale desidera poter tenere appresso di sé nel detto monastero una cagnolina gentile detta Mera; et perché possa ricevere queste soddisfazioni così lei, come la persona che mi ha ricercato, Vostra Signoria le concederà la licenza di tenerla».

L’affiatamento tra Barbara e Gesualda era stato propiziato dalla musica. Tra un salmo e l’altro intonato in coro, le due si erano confidate e, pur riscontrando tante differenze nel modo d’accettare la loro condizione, nello sguardo dell’altra avevano riconosciuto l’amica. Iniziarono allora a condividere ogni cosa con affetto, come le attenzioni per una piccola educanda che solevano cullare nel loro giocoso abbraccio materno.

Un giorno, Barbara aveva raccontato a Gesualda di certe lettere scambiate in gran segreto con un gentiluomo del seguito del legato Giovanni Battista Spada. Ben poco si sapeva di questo nobile milanese dal buon aspetto e dall’ottimo garbo che, giunto a Ferrara nel novembre del 1654 sulla carrozza del legato, era stato incaricato dell’organizzazione degli svaghi musicali da farsi in Castello. Facendogli intendere un qualche audace commercio, la monaca aveva strappato all’uomo la promessa di un invito a teatro per lei e l’amica. «E come possiamo uscire di qui?» aveva subito domandato Gesualda con voce tremante di tenero, inquieto entusiasmo. Con un sorriso, Barbara discolorava il volto dell’amica: «Penserò io a ogni cosa. Tu tieniti pronta ogni sera di questo Carnevale».

Gesualda non faceva che bramare quella villeggiatura dal chiostro: fin dall’infanzia remota aveva disegnato in puerili visioni quel groviglio di suoni, macchine e colori di meraviglia. Sbiancava tuttavia al pensiero delle parole di un editto che le era capitato per le mani: «col presente proibiamo a tutti gli ecclesiastici di questa città, e Diocesi il mascherarsi, l’andare alle commedie pubbliche, e feste, o festini di qual si voglia sorte, il fermarsi a salta in banchi, e il trattenersi, o passeggiare in su e giù nei corsi, e nella Giovecca, e ogn’altra sorte di dissoluzione punibile secondo la disposizione de Sacri Canoni, e Concili, e delle Costituzioni Pontificie, sotto pena di Scudi 100 e della carcere a nostro arbitrio. E se la consuetudine a questo nostro editto sarà scandalosa, oltre le pene suddette, quelli che sono in Sacris, incorreranno nella sospensione dell’esercizio de loro ordini, ipso facto, per tre mesi, riservata a Noi l’assoluzione, e quelli che hanno li ordini minori solamente, nella privazione dell’abito».

Con quei timori Gesualda apriva la porta all’amica. Dall’oscurità della soglia, Barbara le passava un abito: «Presto, indossa questo!» Reggendolo tra le mani, immobile, Gesualda lo ammirava con occhi palpitanti di incanto. Non ne aveva mai indossato uno di così ricco broccato e di simile foggia: la cascata di decori prendeva vita in una vaporosa gonna e in uno stretto corpetto, che scopriva l’avorio delle spalle. «Muoviti, ci attendono! Tranquilla non ti guardo. Ma ti prego, non farci perdere tempo con la tua stupida vergogna». Dando le spalle a Barbara, sfilate le calzature, scioglieva la lunga cintura che stringeva la tonaca ai fianchi. Abbandonava così quel simbolo di povertà per riempire, con le sue morbide e verginee curve, il prezioso indumento. «E il velo?» domandò docilmente non osando incrociare il luccichio degli occhi dell’altra. «Levalo! Prendi questa parrucca». Con imbarazzo abbandonava la bandana bianca, per ricoprire subito i bruni, corti, ispidi capelli con biondi ricci. «Ora andiamo, al profumo e al trucco penseremo poi». Afferrandole la mano, Barbara trascinava con sé Gesualda. Chiusa delicatamente la porta della cella, con passo leggero e svelto scesero le scale. Nel loggiato del chiostro, tutto inondato di una fitta nebbia, procedendo a tastoni presero la porta che conduceva ai due piccoli campi coltivati dalle monache. «Dunque anche noi negli orti?», si chiedeva Gesualda smarrita nelle storie che quel luogo rievocava. Ma non osava dar voce a quei suoi timori che, vani, avrebbero rotto l’immobile silenzio della sera. Ingenuamente, riconosceva in ogni evasione il frutto della provvidenza che, ad insaputa degli oppressi, li sa traghettare attraverso cancelli di libertà. Come era capitato alle tre monache di Mortara: salite per gioco su un carro condotto nella loro dimora per trasportare alcuni attrezzi contadini, avevano pungolato i buoi; e questi, trovando le porte aperte, le trainarono fuori dalla clausura fino al cantone di Santa Barbara. Gesualda, allo stesso modo, si affidava alla stretta dell’amica. Quest’ultima, assai arguta e pratica nelle cose del mondo, aveva studiato accuratamente la pianta del monastero cercando, inizialmente, una fessura nella muraglia perimetrale. Ma non ve ne era alcuna. E se anche avesse trovato un piccolo pertugio, sarebbe stato impossibile ingrandirlo e fuggire senza attirare il sospetto delle altre. Allora si era rivolta nuovamente al suo gentiluomo milanese. Questi, con non molta difficoltà, scoprì che frate Ludovico, in qualità di confessore straordinario del monastero, disponeva di una chiave che gli consentiva di far visita serale ad alcune sorelle. Nel timore di essere denunciato, il religioso gli consegnò la chiave adulterina. Pochi giorni dopo, una carrozza aveva gettato alla porta del monastero un ammasso di panni sporchi. Barbara, prestatasi a nettare il chiostro, si precipitò a raccoglierli: mostrava così, finalmente, di aver a cuore anche i lavori manuali necessari alla vita comunitaria. Fingendo di lavarli, estrasse dalla torbida acqua dei cenci la chiave, poi riposta nei risvolti della manica. E la chiave ora, girando nella serratura della piccola porta dell’orto, apriva il mondo alle due ragazze. Lasciando le fredde zolle appena smosse, Gesualda e Barbara, zampettavano mano nella mano sui ciottoli della via di Formignana. Alzando gli occhi al cielo non vedevano né la luna né le stelle. Sorrette da vigorose braccia maschili, leggere, venivano sollevate sul calesse che le attendeva nascosto ai piedi del Baluardo di San Tommaso. La comitiva, lontanando veloce verso il teatro, scompariva nella bruma portando con sé tutte le aspettative e i desideri di una sera di Carnevale.

(Enrico Scavo)